Il 23 luglio del 1993 Raul Gardini si sparava un colpo in testa nella sua casa milanese di Piazza Belgioso. Un suicidio che a 30 anni di distanza lascia ancora molte ombre e che chiude il sipario su uno degli imprenditori più visionari e spericolati del capitalismo italiano. Tanto si è detto, bene e male, di Gardini. Su un punto anche i suoi detrattori sono d’accordo: con lui è morto anche il sogno della Grande Chimica Italiana.
Cosa sarebbe oggi l’industria chimica e quella agro-alimentare se fosse ancora vivo il “Corsaro” di Ravenna? Questa domanda resterà sempre senza risposta, così come senza risposta resteranno gli interrogativi sul suo suicidio.
Per comprendere la complessità del personaggio analizzeremo le tappe della sua carriera, evitando accuratamente qualsiasi forma di giudizio sull’uomo che affidiamo agli storici.
Gli inizi
I nonni materni gestivano una fonderia di ghisa e bronzo, mentre i Gardini possedevano diverse centinaia di ettari lungo il litorale romagnolo e in Veneto e il padre Ivan si era impegnato nella bonifica dell’area paludosa attorno a Ravenna. Il giovane Gardini è inviato in collegio a Ferrara, quindi a Cesena per frequentare l’Istituto di agraria; per questa stessa specializzazione di studi si iscrive all’Università di Bologna, e appare destinato a occuparsi dell’azienda di famiglia. A cambiare la sua vita è il matrimonio con Idina Ferruzzi, nel 1957.
In quell’anno inizia a lavorare nella Cementi Ravenna, acquistandone con 40 milioni di lire il 10%: la società era stata fondata due anni prima dal suocero Serafino Ferruzzi, che, in una città vivacizzata dalle iniziative dell’Eni di Enrico Mattei e dalle intraprese di un aggressivo uomo di affari come Attilio Monti, stava ponendo le fondamenta di un vero e proprio impero economico.
Le attività di Ferruzzi, inizialmente centrate sull’importazione di cereali, si erano estese progressivamente al settore del cemento e alla lavorazione della soia, mentre parte sostanziale degli utili veniva reinvestita nell’acquisto di quasi un milione di ettari di terreno in Italia, negli Stati Uniti, in Argentina, in Brasile, in Uruguay, in Paraguay.
Alla corte del suocero Ferruzzi
Alla metà degli anni Settanta, nonostante sia tra i protagonisti delle contrattazioni alla Borsa granaria di Chicago, la prima del mondo, e, fra i privati, il maggior proprietario fondiario in Italia, Ferruzzi è pressoché sconosciuto al grande pubblico.
Le sue società non sono quotate in Borsa e ottiene facilmente i prestiti di cui ha bisogno per i commerci dal mondo bancario, restituendoli dopo le vendite, non senza effettuare ampi giochi sulle valute, data la dimensione globale dei suoi affari. È in ottimi rapporti sia con il presidente della Banca commerciale italiana, Raffaele Mattioli, sia con l’Amministratore delegato di Mediobanca, Enrico Cuccia, e possiede quote rilevanti del Credito romagnolo e dell’American Bank and Trust.
Nonostante un comportamento sempre molto riservato, Ferruzzi non può evitare la notorietà – nel 1979 – quando rileva per 100 miliardi di lire da Attilio Monti il pacchetto di maggioranza dell’Agricola finanziaria, una holding che controlla l’Eridania, prima produttrice nazionale di zucchero e proprietaria del 15% della francese Beghin Say, maggiore impresa saccarifera europea. In un ventennio di crescita tumultuosa delle società Ferruzzi, Gardini è fra i più stretti collaboratori del suocero, che coadiuva in particolar modo nello sviluppo delle iniziative industriali (i cementifici e gli impianti di produzione di olio e mangimi).
In questo periodo Gardini rivela un’abilità particolare nel comprendere le implicazioni delle normative emanate dalla nascente Comunità europea, ormai determinanti per le attività agroindustriali e i modi di operare dei gruppi di pressione al suo interno: difende con successo a Bruxelles gli interessi dei produttori italiani di olio di semi, tanto da essere nominato presidente dell’associazione nazionale.
Il Cemento con gli Agnelli e olio di semi
Dopo la morte del padre (1975), che lo costringe a dedicarsi al riassetto del patrimonio familiare, Gardini assume un ruolo di sempre maggior rilevanza all’interno del gruppo Ferruzzi, affiancando il suocero nei più importanti Consigli d’amministrazione, come quello dell’Unicem, la seconda azienda cementiera italiana controllata dagli Agnelli, ma della quale l’imprenditore ravennate ha acquistato una consistente partecipazione nel 1974.
Per Gardini, membro del comitato direttivo della società, è questo il primo contatto con la cosiddetta ala nobile del capitalismo italiano. Di fatto, alla fine degli anni Settanta appare il solo, con il fondatore, in grado di padroneggiare i problemi di una conglomerata così vasta e complessa. Serafino Ferruzzi perde la vita in un incidente aereo nel dicembre del 1979. Da tre anni aveva diviso il suo patrimonio – stimato circa 800 miliardi di lire – fra i quattro eredi, intestandone il 31% al figlio Arturo e il 23% a ciascuna delle tre figlie, Ida, Franca e Alessandra.
La “guerra” dello zucchero
Dopo qualche mese di guida collegiale con gli altri eredi, Gardini assume decisamente le redini del gruppo, e tuttavia la sua posizione di comando resta basata unicamente sulla fiducia dei parenti. Riceverà un riconoscimento formale solo nel 1985 con la Presidenza della Ferruzzi finanziaria, la holding di famiglia che allora si quota in Borsa. La necessità di una guida forte è motivata dal fatto che la morte di Ferruzzi coincide con una congiuntura economica internazionale negativa per il gruppo.
L’Europa ha superato la condizione di inferiorità nel campo agroalimentare nei confronti dei grandi Paesi d’Oltreoceano raggiungendo la piena autosufficienza: la convenienza a importare cereali si riduce drasticamente, dato anche che il netto rialzo del tasso di interesse negli Stati Uniti crea gravi difficoltà a chi, come la Ferruzzi, deve acquistare in dollari e attendere circa sei mesi per il pagamento in lire. Gardini riduce quindi progressivamente i volumi del commercio di cereali, che non esita a vendere al ribasso (prevedendo un ulteriore calo di prezzo), e sposta il centro degli interessi del gruppo dall’America all’Europa, concentrandosi sull’industria.
Nel 1982 scioglie l’alleanza con gli Agnelli nel settore del cemento, mentre punta a espandersi in quello saccarifero. Approfittando della crisi dei maggiori concorrenti nazionali, consolida il predominio in Italia dell’Eridania, e dal 1981 si impegna nella conquista della Beghin Say, grande società saccarifera francese, un obiettivo che raggiunse cinque anni dopo, ponendo così l’impresa di Ravenna al primo posto in Europa nel settore. Fallisce invece, negli stessi anni, il tentativo di acquisire il controllo di un altro protagonista dell’industria saccarifera europea, British Sugar.
L’espansione all’estero
Maggior successo ha la campagna che convince gli agricoltori italiani a produrre soia su vasta scala, attuata con il sostegno tecnico-scientifico della Ferruzzi e con il supporto ottenuto dalla Comunità europea, che si impegna a sovvenzionare metà del prezzo di ritiro della merce.
Il gruppo di Ravenna rafforza così ulteriormente il suo predominio in Italia nella lavorazione di olio di semi e farina di soia, un primato che alla metà degli anni Ottanta si aggiunse a quelli nello zucchero, nel calcestruzzo, nell’estensione della proprietà terriera, nel commercio dei cereali: Ferruzzi è ormai un gruppo agricolo, industriale, commerciale integrato, notevolmente ristrutturato e reso più compatto rispetto all’ultima fase di attività del fondatore.
Contrariamente alla ferrea riservatezza del fondatore Ferruzzi, Gardini considera le relazioni esterne come una funzione aziendale strategica per un gruppo le cui maggiori aziende sono quotate in Borsa, e si concede ai mass media rendendo note le sue strategie imprenditoriali e manifestando la sua personalità e i suoi gusti (la grande passione per la barca a vela, utilissima per stabilire relazioni come quella con Edmond de Rothschild; e l’acquisto di lussuose dimore, quali il palazzetto di piazza Belgioioso a Milano o Ca’ Dario a Venezia).
Notevole risonanza ha nel 1985 l’aumento di capitale per 620 miliardi di lire dell’Agricola Finanziaria, un’operazione alla quale la famiglia Ferruzzi contribuisce per la metà con il conferimento di società e tenute agricole, ma che porta denaro fresco da altri azionisti per più di 300 miliardi; un decimo, tuttavia, di quanto le imprese Ferruzzi, approfittando di un andamento molto favorevole del mercato, raccolgono in Borsa tra il 1985 e il 1987.
La complicata struttura disegnata da Gardini può essere così delineata: al vertice è collocata la Serafino Ferruzzi srl, che controlla il 40% della Ferruzzi finanziaria, holding alla quale fanno riferimento l’Agricola industriale finanziaria armatoriale (che contiene le molteplici proprietà della famiglia all’estero, in particolare negli Stati Uniti) e la Agricola finanziaria (capofila delle attività industriali, tranne i cementifici, che dipendono direttamente dalla Ferruzzi finanziaria).
L’intuizione sui biocarburanti
Argentina, 1984, vigilia di Natale. Come ogni anno, Raul Gardini si è trasferito con familiari, amici e collaboratori nella fazenda di Las Cabezas, per passare le vacanze in mezzo a una natura ben più ricca e selvaggia dell’amata Pianura Padana. Seduto a tavola per colazione, a un’ora antelucana, l’imprenditore ravennate dice cose che volano alte, forse troppo, sulle teste dei commensali. «Fra quattro anni entrerà in vigore la nuova normativa europea per rimuovere il piombo dalla benzina, che viene usato per le sue proprietà antidetonanti, ma inquina. Per sostituirlo, si potrebbe usare etanolo prodotto tramite le eccedenze agricole comunitarie e risolvere così due problemi in una volta sola».
Dieci mesi più tardi, il leader del gruppo Ferruzzi vola a Bruxelles dal commissario Frans Andriessen per proporgli ufficialmente la strategia, preannunciata una mattina a colazione. Sul piatto, Gardini mette il caloroso sostegno ricevuto dagli agricoltori francesi, che vi intravedono buone opportunità di business. Ma, curiosamente, non quello degli agricoltori italiani. A dire il vero, neppure il sostegno delle industrie italiane: la prima casa automobilistica manda a dire che il mercato dell’auto è già abbastanza in crisi, e che la sostituzione del piombo va condotta in porto «senza improvvisazioni». Il primo gruppo petrolifero nazionale invece, sta già investendo su nuovi antidetonanti a base di idrocarburi e non presta ascolto.
La visione innovatrice di Gardini non si ferma al surplus agricolo e all’etanolo: guarda parecchio più in là. «Possiamo risolvere il problema delle eccedenze con l’etanolo – scrive di suo pugno nel 1988, mentre la proposta langue a Bruxelles – e indirizzare la ricerca sulle piante e sull’utilizzo di proteine, grassi e carboidrati in modo assolutamente innovativo. Questa presa di coscienza ci porta dentro l’ambiente, sul versante agricolo-energetico e dell’industria chimica, comunque in alternativa agli idrocarburi».
La scalata alla Montedison
Gardini è già un personaggio quando nel 1986, inserendosi nell’aspra lotta per il controllo della Montedison fra il presidente della società Mario Schimberni e Mediobanca, guidata da Enrico Cuccia, ne diventava il maggior azionista acquistando il 18% dei titoli. Fra l’ottobre del 1986 e il marzo dell’anno successivo Gardini porta la partecipazione dei Ferruzzi dal 18 al 40%, un limite che deve garantirlo da qualsiasi rischio di scalata ostile. Per ottenere questo risultato spende poco meno di 2.000 miliardi di lire, raccolti da tutte le società del gruppo, inclusa la Beghin Say, anche grazie a un ardito aumento di capitale lanciato in Borsa per 1.100 miliardi.
Alla fine del 1987 Gardini costringe Schimberni a lasciare la guida e nel dicembre del 1987 assunse direttamente la Presidenza della Montedison, dichiarando di perseguire una strategia di fondo, l’integrazione fra la chimica e le attività agroindustriali del gruppo Ferruzzi. L’eredità dell’era Schimberni non è negativa da un punto di vista economico-industriale: ceduta all’Eni la produzione di etilene, e parte cospicua della chimica di base, attraverso alleanze e acquisizioni l’ex Presidente aveva raggiunto ottimi traguardi nelle produzioni di polipropilene (Himont) e di ausiliari chimici (Ausimont), e aveva rafforzate quelle farmaceutiche (Erbamont).
Di speciale rilievo era stata la costituzione di Iniziativa Meta, una holding che aveva incorporato le attività più promettenti, i grandi magazzini Standa, la Fondiaria, la Technimont (ingegneria e costruzioni) e i fondi mobiliari. Ma a tutto ciò si contrappone il pesante indebitamento finanziario, 11.500 miliardi di lire di cui 4.000 a breve scadenza, su un fatturato di 14.000 miliardi nel 1987. Del resto, nello stesso anno la Ferruzzi non è in condizioni migliori, se nel bilancio consolidato a un debito superiore ai 5.000 miliardi corrisponde un fatturato che non tocca i 6.000.
L’aiuto di Cuccia
Queste difficoltà sono anche il risvolto di una crescita del mercato borsistico (la capitalizzazione lorda di Borsa passa dai 24.000 miliardi del 1980 ai 142.000 del 1987), a cui molto ha contribuito l’introduzione dei fondi comuni d’investimento, ma che è avvenuta in un contesto istituzionale ancora fragile, poiché a quella data sono ancora assenti diversi strumenti normativi tipici di un capitalismo maturo, come la sanzione dell’insider trading, la regolamentazione della competizione, l’autorizzazione ai fondi pensionistici a operare in Borsa.
Le piramidi societarie e l’ampia emissione di azioni di risparmio (senza diritto di voto) non contribuiscono a creare un clima di stabilità e fiducia. La severa crisi dell’ottobre 1987 rende ineviabile il riavvicinamento fra Cuccia e Gardini, reso più agevole dall’estromissione di Schimberni. Ormai privo del sostegno dei risparmiatori, per non restare schiacciato dalla sua conquista Gardini non può far altro che ricorrere a Mediobanca, di fatto indispensabile supporto della grande impresa nell’Italia degli anni Ottanta.
All’inizio del 1988 Cuccia progetta un complesso piano di riassetto societario il cui nucleo centrale prevede la fusione fra Iniziativa Meta (ovvero le più redditizie attività della Montedison) e Ferruzzi finanziaria, così da dar vita a Ferfin, la nuova holding di controllo dell’intero gruppo, che a un patrimonio di 2.000 miliardi di lire oppone debiti per 1.200, ma vanta anche partecipazioni per 3.200 miliardi di lire. L’operazione reca consistente sollievo ai Ferruzzi, non mancano però critiche all’ingegneria finanziaria di Cuccia, sia per i concambi, che appaiono troppo favorevoli alla famiglia ravennate, sia perché l’operazione danneggia gli azionisti di Montedison, una società quotata in Borsa, che viene depauperata di una delle componenti più pregiate. Insieme con l’attuazione del piano elaborato da Cuccia, vengono effettuate diverse cessioni; e tuttavia resta pesante l’indebitamento di Montedison, per la quale sono necessari 1.300 miliardi l’anno di interessi passivi.
La vicenda Enimont
Questa ragione, la scarsa omogeneità delle strutture produttive, il disinteresse per la chimica di base, spingono Gardini a intavolare trattative nel corso del 1988 con il presidente dell’Eni, Franco Reviglio, per dar vita a un’azienda comune alla quale conferire gli impianti per le produzioni chimiche di base, le fibre, gli elastomeri e i prodotti per l’agricoltura, premessa ineludibile per ottenere adeguate economie di scala che in quei comparti nessuno dei due gruppi da solo può raggiungere.
Nasce così nel gennaio del 1989 l’Enimont, un’impresa chimica che si colloca fra le prime dieci del mondo con 14.000 miliardi di fatturato e 20.000 dipendenti, ma che soprattutto consente a Gardini di liberarsi di 4.000 miliardi di debiti e, al tempo stesso, di conservare la parte migliore della Montedison, poiché le produzioni di polipropilene, i derivati del fluoro e la farmaceutica non entrano a far parte dell’Enimont. L’accordo presenta tuttavia due punti deboli. Innanzitutto il Governo non riesce a far approvare dal Parlamento la legge – promessa a Gardini – che consente l’abbattimento degli oneri fiscali (1.200 miliardi) sulle plusvalenze derivanti alla Montedison dalla fusione. In secondo luogo l’intesa prevede per Eni e Montedison il possesso paritetico del 40% della nuova società e il restante 20% da porre sul mercato, con il patto che i soci non ne approfittino per alterare l’equilibrio.
Quando però nell’ottobre del 1989 il titolo esordisce in Borsa, sono sodali e partner di Gardini che intervengono per acquistarne quantità tali da squilibrare di fatto i rapporti. La vicenda Enimont si trascina quindi per quasi due anni fra polemiche e scontri di ogni genere, finché nel novembre del 1990 la Montedison cede all’Eni il suo 40% per 2.805 miliardi di lire, una somma che a molti pare eccessiva.
La sfiducia, “Mani pulite”, il suicidio
Due anni dopo, il processo al finanziere Sergio Cusani, uomo di fiducia di Gardini, rivelerà aspetti inquietanti dell’“affare” Enimont, relativi agli interventi della finanza extracontabile del gruppo Ferruzzi nel rastrellamento – per ordine di Gardini – delle azioni Enimont poste sul mercato, ma anche al versamento di diverse decine di miliardi a vari esponenti dei partiti politici di Governo, sia per il decreto sulle plusvalenze, sia per lo scioglimento della società. La vendita delle azioni Enimont rappresenta una frattura nel percorso imprenditoriale di Gardini.
Deluso dal comportamento di politici e finanzieri, rompe clamorosamente l’antico rapporto con la Banca commerciale italiana e abbandona tutte le cariche operative in Italia, mantenendo solo la Presidenza della Serafino Ferruzzi srl, mentre il figlio Ivan Francesco assume quella della Ferfin. Ma qualcosa si incrina anche nei rapporti con la famiglia Ferruzzi. Nei mesi seguenti Gardini presenta un progetto di allargamento della Serafino Ferruzzi srl ai più importanti membri del management, fra i quali include sé stesso, e ai giovani della terza generazione.
I cognati considerano la proposta come una manovra per rafforzare il suo comando ed escluderli da qualsiasi potere decisionale e, in un Consiglio d’amministrazione della società a responsabilità limitata, nel giugno del 1991, gli tolgono la fiducia. Nell’agosto successivo Gardini esce dal gruppo con 505 miliardi di lire ottenuti come liquidazione della quota di sua moglie, una somma che investe in campo alimentare spostando però il tiro sui prodotti di consumo.
La popolarità di Gardini tocca l’apice nel maggio del 1992, quando l’imbarcazione da lui allestita, il Moro di Venezia, disputa a San Diego in California la finale di una delle più antiche e prestigiose competizioni velistiche del mondo, l’America’s Cup. Non mancano tuttavia le voci critiche sulla somma spesa dalla Montedison per finanziare l’iniziativa, circa 250 miliardi di lire, troppo gravosa per una società non certo florida. Il 4 giugno 1993 cade l’annuncio che il gruppo Ferruzzi, ormai guidato da Carlo Sama, non è più in grado di rispettare gli obblighi con i fornitori; il controllo passa a un comitato di cinque banche, e la famiglia Ferruzzi esce completamente di scena.
Intanto tutti i massimi dirigenti del gruppo vengono sottoposti a indagine nell’ambito dell’inchiesta “Mani pulite” per l’affare Enimont. Dal carcere di Opera, presso Milano, trapelano stralci della deposizione di Giuseppe Garofano – che ha sostituito Gardini alla Presidenza della Montedison dopo essere stato fra i suoi più vicini collaboratori – nella quale accusa il suo predecessore di gravi scorrettezze e irregolarità.
Prima della convocazione dal magistrato inquirente, Gardini si suicida con un colpo di pistola alla tempia il 23 luglio 1993. Finisce così la parabola umana e imprenditoriale di un uomo che aveva un grande sogno diventato un incubo.
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