Abbiamo un problema col futuro che dobbiamo risolvere al più presto: i nostri giovani non cercano lavoro o rifiutano lavori che per noi sarebbero dignitosi perchè non cercano il compenso, ma un senso alla loro esistenza. Questo emerge da una serie di ricerche svolte dalla CGIL e dalla CISL di Bergamo.
Un risultato che da un lato può essere visto come positivo, non sono dei “bamboccioni” viziati che rifiutano qualsiasi proposta che non sia quella di guidare una multinazionale quotata in Borsa, e dall’altro è sicuramente preoccupante perchè se i giovani hanno smarrito il senso del proprio cammino esistenziale, noi genitori abbiamo delle grandi responsabilità e dobbiamo aiutarli a ritrovarlo nel modo più veloce possibile. Il rischio, molto concreto, è di abbandonare a se stessa un’intera generazione e, di conseguenza, anche quelle a seguire.
Ivo Lizzola, pedagogista dell’Università degli Studi di Bergamo, è uno studioso molto attento ai nostri fenomeni sociali. Negli ultimi anni ha osservato da vicino l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e le loro difficoltà. In particolare, ha seguito le ricerche che sia la Cisl che la Cgil bergamasche, “con due percorsi diversi ma convergenti” hanno avviato per capire meglio la situazione. Lo abbiamo intervistato per avere una sua interpretazione dei risultati.
Cosa ne esce? Cosa si aspettano i giovani dal lavoro?
Al primo posto mettono la qualità delle relazioni. Al secondo il significato e valore, personale e sociale, di ciò che andranno a fare. Solo al terzo posto arriva la questione del compenso, che rivaleggia con un altro elemento, la possibilità di armonizzare tempi di vita e tempi di lavoro, di dedicarsi anche a momenti “di qualità”. Il dato è sorprendente, perché i giovani italiani hanno i salari più bassi d’Europa, eppure non cercano primariamente retribuzioni alte. A meno che parliamo della fascia che ha necessità di un ritorno economico immediato perché proviene da famiglie che vivono davvero nel bisogno. Il tema del compenso è sempre fortemente bilanciato, in ogni caso, con gli altri aspetti, e questo è interessante non solo per il sindacato ma anche per chi disegna politiche del lavoro”.
Come si trovano, all’inizio, in questo mondo?
Le prime esperienze, soprattutto tra i giovanissimi, sono contrassegnate da un senso di ansia. Avvertono una fortissima pressione a fornire certe prestazioni. Ed è diffusa presto anche la sensazione, sofferta, di essere in una posizione di ristagno, sottoutilizzati. In questi decenni abbiamo alzato il livello della frequenza alla scuola superiore, ma quando i ragazzi ne escono, si trovano a dover vivere una faticosa accettazione di ruoli e di mansioni inferiori alla loro preparazione e alle loro aspettative: quello che trovano è un lavoro pesante, intenso, nel quale molti sentono oltretutto di non avere chance di sviluppo ulteriore, occasioni all’orizzonte. C’è molto lavoro povero: povero anche di prospettive, povero esistenzialmente. Spesso povero di senso. Si ritrovano presto svalutati e svuotati: anche per questo si convincono che “io non sono il mio lavoro”: la mia identità, il senso di quel che faccio, ma anche un po’ di felicità e di gusto non posso che recuperarli in altri tempi della vita, per i quali devo allora preservare abbastanza spazio. Non devo lasciare che il lavoro invada tutto.
Ci sono modelli sociali di grande illusione – i programmi tv e i social li veicolano tutti, dal calciatore al rapper, dall’astronauta all’influencer – e poi ti ritrovi a fare un mestiere qualunque, senza neppure poter dare qualcosa di tuo.
La sofferenza che si prova è una sofferenza interiore: non valgo molto, il mio lavoro non è un’occasione per scoprire che ho delle risorse. L’altro aspetto di povertà riguarda le relazioni che nell’ambiente di lavoro si creano: giovani e giovanissimi sono spesso ingaggiati in rapporti solo funzionali, duri, freddi; e c’è anche un po’ di sfruttamento, per dirla tutta. Ma, soprattutto, c’è una grande povertà di relazioni, e questo va anche a segnare i rapporti con le generazioni precedenti. Infine, come ha messo in luce già cinque anni fa un bellissimo studio – Lavoratori e cittadini (Vita e Pensiero, 2018), di Rosangela Lodigiani, sociologa dell’Università Cattolica di Milano –, mentre fino a trent’anni fa l’ingresso nel mondo del lavoro costruiva il passaggio verso una pienezza di cittadinanza e grazie a posizioni contrattualizzate tu avevi anche tutta una serie di tutele, dalla pensione alla salute, adesso, per i tipi di contratti che bisogna accettare per iniziare a lavorare, si è un po’ ribaltato il rapporto: è la cittadinanza che eventualmente può diventare una forma di tutela sul lavoro. La nostra Costituzione chiede a ogni cittadino di dare, attraverso il lavoro, il suo contributo alla costruzione della convivenza, ma in queste condizioni…
Ti passa la voglia. Il rider che oggi va in giro sotto la pioggia a consegnare pacchi non vive relazioni sociali molto interessanti, al massimo prenderà qualche mancia.
Ma anche quello che sta a casa a lavorare sul computer per non si sa bene chi, al quale lo lega un contratto da precario. È l’aspetto grigio e non bello dell’informatizzazione e della possibilità di lavorare a distanza, che abbiamo visto sempre più crescere negli ultimi anni.
Le generazioni precedenti hanno vissuto in un altro clima.
Soprattutto nel periodo della ricostruzione dopo la guerra, il lavoro era sì duro, pesante, ma ti immetteva anche in una trama di relazioni fortissime. Legava le generazioni. Era dedicato non solo alla famiglia presente ma ai figli e addirittura ai nipoti: si lavorava anche per aprire delle possibilità alle generazioni future. Il lavoro non ti garantiva solo il possesso di una professionalità, disegnava in un certo senso la vita intera.
Anche il periodo della pandemia ci ha ricordato la dimensione sociale del lavoro. Chiusi in casa avvertivamo che quelli che erano fuori stavano continuando a lavorare per permettere alla macchina sociale di non incepparsi del tutto.
Dal panettiere alla persona che doveva per forza uscire, rischiando del suo, per andare a tenere attivo, per esempio, il servizio idrico e far arrivare l’acqua nelle case, fino a quelli che consegnavano le bombole di ossigeno per gli ammalati e a chi faceva gli straordinari per costruirle. Giusto parlare, ovviamente, dei medici e degli infermieri, ma ci sono stati tanti altri ruoli che hanno garantito la vita di tutti in quei mesi; lavoratori e lavoratrici hanno riscoperto un po’ il senso, il valore, la destinazione del loro lavoro: è come se, improvvisamente, si fossero di nuovo accorti che non lo facevano solo per lo stipendio. Era tornata in primo piano questa idea di un lavoro che costruisce la vita, la convivenza, che va incontro ai bisogni delle persone.
Oggi i ragazzi vivono il lavoro in gran parte come esperienza di sradicamento dal vincolo sociale, mentre prima era il luogo della sua costruzione. Partecipavi all’attività sindacale, ma al tempo stesso vivevi anche un senso fortissimo di appartenenza all’impresa e le due cose stavano insieme. Ci si sentiva dentro una costruzione condivisa del presente e del futuro.
Io oggi questa apertura al futuro la avverto nei lavoratori stranieri che incontro. Quando vengono i genitori dei miei studenti in università in occasione delle lauree delle figlie o dei figli che sono nati qui, hanno le lacrime agli occhi, vengono a ringraziare e a dirti della fierezza che vivono e quanto quel momento li ripaga di tutte le sofferenze che hanno vissuto. Quando li vedo, quando sento questa loro emozione profonda, mi viene in mente mio padre e tante persone della sua generazione. Tutto questo sta forse riemergendo nelle ultimissime generazioni. Adesso che tutto è incerto, la dinamica di una prospettiva solo di accumulo, di affermazione di sé a dispetto degli altri, è andata abbastanza in crisi. La catena “lavoro salario profitto consumi esasperati”, anche un po’ stupidi (consumi anche di emozioni) è già la cultura di ieri.
La metà dei miei studenti universitari lavora. Molte famiglie non potrebbero mantenerli agli studi. Fanno spesso anche lavori umili, molto pesanti. Eppure, lo fanno con una fierezza incredibile perché sanno che questo permette loro di formarsi e anche di aiutare in casa, adesso che l’economia domestica è fragile, che le sicurezze economiche costruite dei genitori o dai nonni non bastano più. I giovani hanno voglia di costruire, anche con sacrificio, un progetto di vita in cui esprimersi. E stanno facendo anche tanto lavoro di cura nelle loro reti familiari. È come se recuperassero alcuni tratti che fra gli anni Novanta del secolo scorso e il primo decennio di questo secolo si erano perduti. Qual è il punto debole? Che il lavoro inteso in questo modo non costituisce più, come un tempo, il radicamento in un vincolo sociale.
È un lavoro disperso ormai. Vissuto nell’ottica, se non individuale, di una piccola cerchia.
C’è tanto lavoro precario, atipico, non garantito. E poi, se tu spingi sull’avventura individuale, sulla costruzione della competenza tua da giocarti in competizione con gli altri, e alimenti una cultura della scuola che va in questa direzione, con il richiamo continuo alla prestazione, al merito, produci una cultura del lavoro individualistica, che non potrà che essere duramente selettiva. E si crea una disaffiliazione al vincolo sociale, perché un giovane deve dedicare ad altro le sue energie.
Poi alla fine quello che “ce la fa” è “uno su mille”, come dice la canzone, e gli altri 999 vivono un disagio profondo. Ma non si può costruire una società su quel disagio, su quel senso di inadeguatezza diffuso.
No assolutamente. Per fortuna si sta cominciando a lavorare su queste cose. Si stanno pensando alcuni progetti che vengono, soprattutto, dal mondo cattolico, interessantissimi: Acli, Cl, Focolarini, creano delle reti di supporto, d’informazione, di riorientamento dei lavoratori. O addirittura di rinforzo a esperienze di economia civile, o privata ma condivisa: artigiani che si mettono insieme, creano piccole imprese… È un mettersi in sicurezza reciproca.
A ben vedere poi, in tanti campi siamo in caduta libera anche come contenuti creativi, innovativi: la genialità industriale era molto più forte nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta del Novecento.
È vero. Perché, c’è poco da fare, la qualità del lavoro si dà da sempre dentro la relazione. Ci vuole quella dimensione, direi – usando una parola inattuale – di gratuità, di bellezza cercata, di gusto. Il lavoro oggi ha dentro meno cura, perché la cura ha bisogno di relazioni buone. Di una competizione cooperativa, del gusto della cosa fatte bene insieme, dell’imparare reciproco.
L’elemento competitivo è la molla per avanzare, ma non può essere l’unico in una società umana.
Aggiungerei, un po’ provocatoriamente, che lavoro non è solo quello salariato, è decisiva nella nostra società la qualità di tanto travail bénévole, volontariato, attività sociali: anche questo è lavoro. Conosco persone che nel Terzo settore spendono il meglio della propria intelligenza.
In Italia abbiamo guadagnato elasticità all’ingresso nel mondo del lavoro, per superare l’eccessiva rigidità del passato. Negli Stati Uniti però, per esempio, lasciato un lavoro è anche molto facile trovarne un altro. Ci sono meno tutele ma c’è davvero tanta mobilità.
È tutta un’altra realtà. Qui un giovane che entra nel mondo del lavoro deve adattarsi, di solito non riesce a scegliere: vive in un clima di necessità. Poi c’è una minoranza, non piccola, ma non è più di un terzo del totale, che riesce a scegliere ciò che vuol fare.
Ai colloqui di selezione delle aziende hai la sensazione che siano i giovani che stanno testando la società e non viceversa. Questo vuol dire che le condizioni giovanili si stanno profondamente diversificando: se sei in quest’area qualificata e privilegiata, l’esperienza di lavoro è molto diversa dal ragazzo che fa consegne a domicilio. E tra queste due diverse categorie si va creando un’estraneità fortissima. All’interno delle ultime generazioni si pongono delle diseguaglianze, delle differenze profonde. Negli Stati Uniti le riprese di progetto, i riequilibri nel mondo del lavoro sono all’interno di tutto un sistema economico-sociale che li consente un po’ in tutti i settori. Da noi no. Chi finisce in una marginalità, a causa della poca mobilità rischia di restarci per sempre. Negli ultimi anni, però, ho incontrato anche giovani trentenni con carriere ben avviate che avevano perso interesse e si sono rilanciati, cambiando strada: si iscrivono a Psicologia, Filosofia o da noi a Scienze della comunicazione, cambiano del tutto ambito lavorativo. Però sono eccezioni, coraggiose eccezioni.
Il lavoro stesso cambia, nel giro di dieci anni, in molti settori, una professione non è più la stessa: le condizioni materiali, tecnologiche chiedono competenze del tutto inedite. Dunque un livello di “formazione permanente” dovrebbe essere incorporato.
Sì. Questo è uno snodo critico. Ci sono imprese, anche multinazionali che hanno creato delle “academy” interne, ma devono essere di misura medio-grande e gestite in modo intelligente. Un imprenditore che investe su questo sa che lo fa sull’autonomia dei suoi quadri, che potrebbero anche andarsene a cercar lavoro da un’altra parte. D’altronde, in questo modo, ti mostri come un luogo ricco e interessante e fai sentire i giovani all’interno di un progetto dinamico. Anche gli Istituti tecnici e professionali negli ultimi anni hanno aperto campi di sperimentazione molto interessanti. Lo hanno fatto nel momento in cui si sono un po’ affrancati da una certa soggezione passivizzante nei confronti delle imprese e del mercato del lavoro così com’è attualmente, e sono stati capaci davvero di progetto più che di adeguamento.
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