Solo pochi giorni fa, Marina Cicogna era tornata a parlare della propria malattia, del cancro “violento inatteso e improbabile” che l’ha costretta ad affrontare la morte come qualcosa che, ormai, le si era impigliato nei pensieri e non se ne andava più.
È morta come desiderava: nel proprio letto, accudita da Benedetta, la compagna di una vita. Se n’è andata da donna libera “che non ha mai avuto paura di mostrarsi per ciò che è e ha compiuto le sue scelte in totale autonomia, senza proclami”, come si era definita nella sua autobiografia “Ancora spero. Una storia di vita e di cinema”.
Una descrizione secca, pochi fronzoli, specchio di una personalità in cui lo charme conviveva con un piglio militaresco. Come quando, lo scorso 10 maggio, in una delle sue ultime apparizioni in pubblico, era salita – con eleganza sublime e un passo deciso pur nella sua fragilità – sul palco dei David di Donatello per ritirare un tardivo premio alla carriera.
Quella sera aveva esaltato la magia del cinema, l’arte a cui era destinata. Lei, figlia di un padre milanese del casato Cicogna Mozzoni e di una madre della borghesia veneziana, con il nonno Giuseppe Volpi di Misurata che fu il primo governatore della Libia e il fondatore della Mostra del Cinema di Venezia nel ’32.
“Il cinema è nella mia vita da sempre, nel mio Dna dalla nascita”, diceva. E così è stato. Nonostante l’ostracismo maschilista di quel mondo, Marina Cicogna è diventata la prima grande donna di cinema capace, in pochi anni, di mettere la propria firma su alcuni capolavori indiscussi: da “Teorema” di Pasolini a “Uomini contro” di Rosi, da “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Wertmüller a “Metti una sera a cena” di Patroni Griffi, fino al trionfo con i film diretti da Elio Petri (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, premiato con l’Oscar e “La classe operaia va in paradiso”).
Era allergica alle classificazioni. “Spesso le persone mi hanno messo delle etichette – scriveva nella sua autobiografia.
“Ma la mia vita e le mie scelte parlano per me (…) Considero le parate, e in generale l’ostentazione dei propri orientamenti, come qualcosa di ridondante (…)”. Anche quando raccontava delle sue amicizie famose, dei meravigliosi viaggi e delle case da favole, il suo non era mai esibizionismo gratuito ma l’esito naturale di un’esistenza vissuta senza tentennamenti, piena e centripeta.
Non era fatta per essere la bella statuina anche se il privilegio della nascita rischiava allora (soprattutto per una donna) di confinarla in una dimensione da salotto.
Cresciuta sulla spiaggia dell’Excelsior, amata dai divi – una piccola Hollywood racchiusa tra venti capanne sulla sabbia – Marina Cicogna ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza tra Milano e Roma per approdare, poi, a New York e Los Angeles, anche se la carriera accademica venne, in realtà, soppiantata presto delle frequentazioni del jet set di casa Warner. L’anno di grazia scocca nel 1967.
Fu allora che l’istinto e il talento le suggerirono di comprare per la distribuzione “Bella di giorno” di Buñuel, che vinse il Leone d’oro di quell’anno nonostante le molte diffidenze degli addetti ai lavori.
Seguì un percorso luminoso ma breve con quell’Oscar vinto nel 1971: il primo per una produttrice donna.
Fu pioniera in tutto, curiosa in amore e nelle relazioni personali, a proprio agio con tutti: sulle piste da sci con l’amico Gianni Agnelli, ma anche in compagnia di Jackie Kennedy, Gregory Peck, Mick Jagger, Luchino Visconti e Ornella Vanoni che la definiva la donna “con l’onda perfetta” per via di quella piega sempre in ordine, anche di prima mattina.
Tanti gli amici di una vita ma anche i luoghi: Milano, Roma, Cortina, Tripoli, Miami e villa Barbaro a Maser, costruita dal Palladio e affrescata dal Veronese, dove sono sepolte la madre, l’amata zia Marina e la cugina Diamante. Con Venezia aveva un rapporto di odio e amore: «È il posto del cuore» diceva «ma è anche il luogo dove non voglio più vivere e tornare perché fa parte di un passato anche molto pesante».
Perché Marina Cicogna era, sì, impermeabile ai giudizi, ma non così salda di fronte ai dolori e alle delusioni della vita. Il peso, spesso rimarcato, di due genitori anaffettivi; la sua relazione, lunga e travagliata, con Florinda Bolkan (una delle donne più importanti della sua vita, insieme, naturalmente, a Benedetta con la quale il legame è durato trent’anni ed è stato suggellato davanti alla legge con l’adozione che le ha unite sotto lo stesso cognome), la tragedia, fragorosa e insopportabile, del suicidio del fratello Bino.
Fino alla recente malattia che l’ha fatta vacillare ma che nel suo libro le fa dire, con grande lucidità: “la mondanità non ha più interesse per me. Ho vissuto tutta la mia vita nel mondo. Ora guardo fuori dalla finestra consapevole di avere un tumore e non perdo tempo a chiedermi perché sia capitato proprio a me”.
E, affacciata a quella finestra, su quella Roma a due passi da Largo Fellini (come a voler rimarcare che la sua, in fondo, è stata proprio una “Dolce Vita”) ci è rimasta fino alla fine, in compagnia dei suoi amati cani e, nella testa, quel motto di Casa Cicogna sin dal Quattrocento, risuonato fino all’ultimo istante: “Ancora spero”.
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