Cinema, una storia senza nome: il Caravaggio ritrovato in un’Italia perduta

Il gioco del cinema e il bluff della vita. Ma anche la vicenda paradossale ed enigmatica, profondamente siciliana, di un capolavoro trafugato dalla mafia e condannato a rimanere avvolto nel mistero. Un furto, quello della Natività firmata da Caravaggio, avvenuto all’interno dell’Oratorio di San Lorenzo, nella notte tra il 17 e 18 ottobre del 1969, a Palermo, che ha generato le più disparate ipotesi sulla sorte del quadro. Quasi una metafora di una Sicilia incapace di godere della bellezza.

Una Sicilia e un’Italia soffocate da una violenza mafiosa tanto feroce quanto votata alla dissoluzione di ogni lampo artistico o di ciò che rimane di un’identità culturale. Sul tema, che affascinò Leonardo Sciascia (con un riferimento in “Una storia semplice”, Adelphi, 1989), hanno scritto Giuseppe Quatriglio nel racconto “Il muro di vetro” (Flaccovio, 2008), Luca Scarlini, in un libro dal titolo “Il Caravaggio rubato. Mito e cronaca di un furto” (Sellerio, 2012), Attilio Bolzoni (“La scomparsa del Caravaggio. Misteri dell’arte”, Glifo, 2016), Gigi Borruso nel romanzo “Il suono della notte” (Pietro Vittorietti, 2017), Andrea Camilleri nel volume “Natività” (Interlinea edizioni, 2017), Riccardo Lo Verso in “La tela dei boss: la verità sul Caravaggio rubato” (Novantacento, 2018) e Rosanna Dongarrà nel romanzo “Lo strano caso del Caravaggio scomparso” (Dario Flaccovio, 2018), oltre al volume “Operazione Caravaggio” (Skira, 2015) e a una vastissima bibliografia.

Racconta tutto questo, e molto altro, il film di Roberto Andò, “Una storia senza nome”, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2018 e ora in programma il 15 marzo per la sesta edizione della rassegna “Venezia a Zagabria”.  Chi non lo ha visto in sala, in ogni caso, può recuperarlo in dvd e blu-ray. In particolare, il titolo appare simbolico nel segno di una dicotomia che investe ciò che si può nominare e ciò che rimane innominato, il reale e l’immaginario. Si tratta dello stesso titolo che campeggiava dalla copertina del testo originale di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, destinato poi a diventare “Il gattopardo”, come emerge in una sequenza dell’apprezzato “Il manoscritto del principe” (2000), uno dei lungometraggi più significativi di Andò, seguito da “Sotto falso nome” (2002), “Viaggio segreto” (2006), “Viva la libertà” (2013) e “Le confessioni” (2016).

In “Una storia senza nome”, l’impasto di vero e falso e la riflessione sulle ombre che annebbiano il ricordo, in un equilibrio illusorio che mette in dubbio ciò che si crede a favore dell’ipotetico, dominano un girotondo romanzesco di situazioni e colpi di scena, crimini e desideri, pericoli e sogni fugaci, come le immagini filmiche, dove nulla è come sembra. Sono suggestioni di cui è intrisa la creatività del regista palermitano e che trovano qui un’inedita leggerezza e gioia narrativa.

Nella sceneggiatura di Andò e Angelo Pasquini, in collaborazione con Giacomo Bendotti, al tema della falsa identità di chi scrive si accompagna l’evocazione della già citata Natività, con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, a generare enigmi e giochi a nascondere, per ricordare il poeta Lucio Piccolo, nei quali “il mondo dintorno/non è fermo ma scorrente parete/dipinta, ingannevole gioco,/equivoco d’ombre e barbagli,/di forme che chiamano e/negano un senso…”.

Segreti e bugie, amore e illusione del vivere, da sempre centrali nel cinema di Andò, si amalgamano qui con una dose superiore di ironia, preziosa per illuminare un mondo – politico, criminale, creativo, senza dimenticare l’universo degli affetti e l’industria del cinema – monopolizzato da imposture e mistificazioni, da finti competenti (siano ministri o sceneggiatori) e ghostwriter, il cui lavoro oscuro aleggia nella quotidianità senza che la maggioranza lo percepisca.

“Una storia senza nome” affida a questi fantasmi, come la segretaria Valeria e la madre Amalia, impersonate da Micaela Ramazzotti e Laura Morante, il compito di sottrarre all’oblio chi agisce e incide sulla contemporaneità senza che il cono di luce della trasparenza, vero e proprio feticcio ossessivo nell’epoca dei Social Network, mai li raggiunga. Nello stesso tempo, figure come Alessandro Pes, interpretato da Alessandro Gassmann, incarnano un immaginario ambiguo, appartenendo alla schiera delle controfigure e dei falsari, in una storia che vede la realtà contagiare la finzione, innescando meccanismi pericolosi e incontrollabili.

Non tollerata dalla moglie del boss Badalamenti, oppure usata come scendiletto da Riina o, chissà, addirittura data in pasto ai maiali o incenerita, secondo le tante ricostruzioni, la Natività di Caravaggio rappresenta un rebus che scompagina le esistenze dei personaggi principali grazie alla guida nell’ombra di Alberto (sullo schermo Renato Carpentieri). Lui è un uomo dei servizi segreti ma è anche sorprendentemente legato al passato di Amalia e all’origine di Valeria, in una scatola cinese di destini che scandisce l’intero racconto per immagini, combinando divertimento e riflessione su eros e thanatos, apparenza e inganni, delitti e falsificazioni in un presente che si nutre di ricatti.

Tra Roma e Palermo, è il linguaggio filmico a fare il verso alla vita e alle sue doppiezze, in una levità che strizza l’occhio a numi tutelari come Billy Wilder, François Truffaut, Peter Bogdanovich, Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi e alla tradizione della commedia all’italiana. Si citano pure, in un tono scanzonato al pari dei vari tasselli un po’ da divagazione stravagante e un po’ da thriller sghembo, “La dolce vita” di Federico Fellini, “Viale del tramonto” di Wilder, “Il vergine” di Jerzy Skolimowski (qui nei panni del regista) e “Il generale Della Rovere” e “Viva l’Italia!” di Roberto Rossellini.

In questa esaltazione dell’ambiguità di ogni elemento e della doppiezza degli individui, solo il cinema può riprodurre la complessa commistione di vero e falso che trova nella tela di Caravaggio, tra morte e resurrezione, sparizione e ritrovamento, un’intrigante declinazione di questo intreccio indissolubile di autenticità e impostura.

È il cinema, bellezza, ed è la vita, sembra suggerire Roberto Andò, in un contesto segnato da alleanze o trattative fra Stato e mafia e intimidazioni che rendono la Natività, tuttora oggetto d’investigazioni, con la riapertura delle indagini da parte della Procura di Palermo nel giugno 2018, il simbolo di una rinascita probabilmente perduta per sempre. Come accadeva con il Moro liberato da Marco Bellocchio in “Buongiorno, notte”, in “Una storia senza nome”, che prosegue in una chiave stilistica differente, a tratti comica e con toni da commedia, il viaggio nelle nebbie dell’identità e dell’invenzione di “Sotto falso nome”, la rielaborazione creativa devia da una cronaca asfittica.

Nell’epilogo, gli avvenimenti al centro della scena si trasformano in un film a cui assistono gli stessi protagonisti, in una situazione pirandelliana che suggerisce nuove rappresentazioni e decodificazioni. Tutto si modifica e si rinnova, ci ricordano gli sceneggiatori, e nulla è più fuggevole e mutevole della vita la cui ombra, fatta di miraggi e chiaroscuri, alimenta il mito cinematografico.

Domina l’idea che sia impossibile immaginare qualcosa che non esista già nella realtà, onorando un’illustre tradizione letteraria e filmica, da Joyce a Fellini, e prevale l’omaggio al cinema. Una celebrazione del fascino misteriosamente ambiguo dell’arte, tra sberleffo e voglia di spiazzare in un gioco di specchi che moltiplica le interpretazioni.

Marco Olivieri
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Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

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