Clima impazzito, crisi culturale e pandemie? E’ già successo, è la Storia della caduta dell’Impero Romano

Guerre, pandemie, cambiamento climatico, calo demografico e impoverimento. Per noi occidentali questo “paesaggio” è familiare. Lo era anche per i romani del basso impero. Lo storico americano Kyle Harper descrive gli ultimi secoli dell’Impero d’occidente come una concatenazione di crisi epidemiologiche e ambientali, che fiaccano le resistenze alle invasioni barbariche e precipitano l’Europa verso un arretramento politico, sociale, tecnologico, culturale.


Pubblicato in inglese nel 2017, il saggio di Harper non è uno dei tanti instant-book scritti dopo il coronavirus. Fondato su solide basi scientifiche, dalle rilevazioni sui ghiacciai alle analisi sul Dna, è un affresco angosciante sulla ritirata di una delle civiltà più avanzate della storia: «Pur immaginando che la peste di Giustiniano avesse ucciso metà della popolazione, esistevano pur sempre degli esseri umani sparsi sul territorio.

La verità è che in alcune regioni dell’impero era diventato difficile trovarli. Dalle testimonianze materiali dell’Italia le persone sembrano misteriosamente sparite. Villaggi e fattorie che da un migliaio di anni sostentavano un notevole livello di civiltà sembrano per la maggior parte scomparsi. (…) L’Italia retrocesse barcollando a livelli di tecnologia e cultura materiale che non si erano visti neppure prima degli Etruschi. L’alleanza tra guerra, peste e cambiamento climatico cospirò per invertire un millennio di progresso materiale e trasformò l’Italia in una zona arretrata dell’Alto Medioevo, più importante per le ossa dei suoi santi che per la sua ricchezza economica o politica».

È una lettura interessante alla ricerca di corsi e ricorsi storici: le grandi crisi del passato a cui seguirono rinascite, ripartenze. In seguito, crolli e ricostruzioni li cercherò soprattutto in epoca contemporanea. Ma partire da Roma è obbligatorio perché la caduta di quell’impero divenne l’ossessione di tutti i suoi successori. Nel dibattito sull’America di oggi, il riferimento alla fine di Roma è costante. Un classico di questo genere fu trent’anni fa “Ascesa e declino delle grandi potenze” dello storico britannico Paul Kennedy. Gli imperi di cui si occupa Kennedy occupano la scena dal 1500 in poi, ma l’archetipo resta quello romano.

Tra i parallelismi fra Roma e l’America, Kennedy analizza l’overstretch o iper-dilatazione della presenza militare. Durante l’Alto Impero romano, il bilancio statale complessivo era dell’ordine di 250 milioni di denarii: due terzi erano assorbiti dall’esercito. L’impero britannico finì in bancarotta dopo la Seconda guerra mondiale. Donald Trump tenta di rinviare la resa dei conti, scaricando una parte del problema sui bilanci degli alleati europei e asiatici? L’idea che i nuovi imperi d’Occidente debbano studiare la storia di Roma per capire il proprio destino, fu imposta con particolare efficacia dall’inglese Edward Gibbon.

L’autore della monumentale Storia della decadenza e caduta dell’impero romano era un uomo del Settecento, un allievo di Voltaire, una delle sue tesi più controverse riguarda il ruolo del cristianesimo: decisivo per indebolire Roma e consegnarla ai barbari. Era però una tesi già diffusa tra i romani, come ricordava il medievista italiano Girolamo Arnaldi, nelle sue pagine sul sacco di Roma del 410 ad opera dei visigoti: «Era inevitabile che, giunti alla stretta finale, con Alarico che si avvicinava alle porte di Roma, venissero al pettine i nodi della storia degli ultimi cento anni, da Costantino (306-337) in poi.

Motivata dall’esigenza di infondere una nuova vita all’impero, la conversione al cristianesimo sembrava aver avuto il solo risultato di predisporre gli animi alla rassegnazione e alla resa. L’osservanza del principio evangelico in base al quale, se uno ti colpisce sulla guancia destra, devi porgergli anche l’altra (Matteo 5, 39), era da molti giudicata incompatibile con la salvezza della respublica». Ciò che accade dopo la caduta dell’Impero d’occidente, resta un ammonimento tremendo sulla possibilità che la disgregazione di un ordine politico e sociale apra la strada a un lungo regresso, con condizioni di vita materiali sempre più degradate.

Roma fondava la sua economia sullo schiavismo e quindi la prosperità materiale non era certo ripartita in modo equo. Costruì però un ordine “globalista”, diremmo oggi: sia nella sua capacità di cooptare nuove etnie, concedendo la cittadinanza anche a popoli periferici; sia perché la Pax Romana garantiva la sicurezza nel Mediterraneo e quindi favoriva i commerci e la crescita. Con la fine di quell’ordine imperiale il tessuto economico si disgrega, s’interrompono le relazioni tra regioni diverse dell’Europa, del Mediterraneo, dell’Asia minore, il localismo tribale è il nuovo orizzonte di un mondo rimpicciolito e oppresso dalla scarsità di risorse. Oltre alla ricchezza materiale, si disperde quella culturale: muore la conoscenza di lingue antiche come il greco, essenziali per leggere di scienza e filosofia; avanza l’analfabetismo, anche tra le élite nobiliari barbariche molti non sanno scrivere neppure il proprio nome. Senza scrittura s’interrompe la trasmissione del sapere.

È in questa fase che si apre un “cantiere” destinato a dare i suoi risultati per secoli: il monachesimo. I religiosi diventano i custodi non solo dei testi sacri, ma anche della sapienza pagana. A partire dal Vivarium di Cassiodoro, nei monasteri medievali vengono salvati dall’oblio i più importanti tesori della civiltà ellenistica e latina. La fantasia di Umberto Eco ne “Il nome della rosa” mette al centro del suo giallo medievale una rarissima opera di Aristotele salvata in un monastero. I monaci non si limitano a ricopiare a mano per tramandare ai posteri: creano scuole, come tante piccole dighe contro il dilagare dell’ignoranza.

Inoltre con le “regole” (a cominciare da quella benedettina) i monasteri diventano delle oasi di ordine, disciplina, armonia: tutto ciò che era esistito e poi scomparso nel caos dopo la caduta di Roma. Il cantiere monacale non poteva immaginare a cosa sarebbe servito il suo lavoro di preservazione. Né l’Umanesimo né il Rinascimento e neppure l’Illuminismo sarebbero come li conosciamo, se qualcuno non avesse custodito i tesori della cultura occidentale. Che cosa spinse i monaci a preservarli? Una delle chiavi sta nella componente celtica del monachesimo. Erano dei convertiti che avevano dovuto studiare il latino come una lingua straniera. La fatica compiuta li aveva resi ancora più consapevoli del traguardo raggiunto.

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