Cosa resterà della musica di oggi tra venti anni?

Cosa ricorderemo tra venti anni delle canzoni, degli artisti e della musica che ascoltiamo oggi? Questa è la domanda che, quasi ossessivamente, si pongono da tempo gli operatori del settore e anche gli appassionati.


Lo streaming ha avuto un impatto devastante sull’industria musicale, modificando tutti i parametri di mercato e rendendo l’ascolto più superficiale ed effimero.

Gli album non si ascoltano più dall’inizio alla fine e le playlist, proposte anche dai servizi di streaming, regnano sovrane nelle orecchie dell’ascoltatore. Prendendo in prestito il termine binge-watching, utilizzato per descrivere il consumo rapido e smodato di film e serie TV sulle piattaforme di streaming, possiamo parlare di binge-listening.

Prima dell’avvento dello streaming, la scoperta musicale era un processo attivo e sociale, mediato da figure come DJ, blogger e riviste specializzate. Questi “curatori” umani introducevano il pubblico a nuovi artisti e generi, ispirando approfondimenti e discussioni.

La condivisione di dischi e CD tra amici era un rituale importante, carico di significato emotivo. Questo senso di comunità e scambio personale si è andato progressivamente perdendo nella transizione all’ascolto algoritmico.

Il ruolo degli algoritmi

Gli algoritmi delle piattaforme di streaming sono progettati per offrire un’esperienza personalizzata, basandosi sui nostri gusti e abitudini d’ascolto. Mentre questa personalizzazione può sembrare conveniente, essa nasconde anche un lato oscuro: la tendenza a rinchiuderci in bolle algoritmiche, isolandoci da orizzonti musicali più ampi e diversificati.

I dati, infatti, rivelano che una significativa percentuale della musica ascoltata su Spotify (circa il 30%) proviene da raccomandazioni algoritmiche, che tendono a proporre variazioni su temi già noti piuttosto che esplorare nuovi territori sonori. Così, pur avendo accesso a un’incredibile varietà di generi, spesso finiamo per ascoltare una manciata di artisti e brani che rientrano in ben precisi schemi di gusto.

Questo fenomeno rispecchia una tendenza più ampia nella nostra società digitale, in cui gli algoritmi si sono sostituiti a figure tradizionali nel guidare le nostre scelte e il nostro consumo culturale. Mentre la personalizzazione può offrire una comoda esperienza su misura, essa rischia di appiattire la diversità e sopprimere la serendipità che un tempo caratterizzava l’esplorazione musicale.

Il fatto che molte delle nostre scelte di ascolto siano guidate dagli algoritmi rende più labile il nostro livello di attenzione e profondità della musica che ascoltiamo e ne riduce, quindi, il ricordo nel tempo.

Il ruolo dei social

In questo quadro va ad aggiungersi tutto l’ecosistema dei social, in particolare TikTok, dove la musica diventa il sottofondo per balletti o sketch.

Gli artisti stessi spingono i fan a portare in tendenza i propri brani su TikTok, e alle volte diventano loro stessi dei TikToker part-time. Nell’industria musicale americana è scoppiata una polemica proprio sul malcontento di alcuni cantanti “costretti” dalle proprie etichette a essere molto presenti sulla piattaforma social cinese.

È proprio questo il grande problema della musica nell’era dei social: viene relegata a sottofondo e contorno di altro.

Gli stessi artisti ormai puntano a realizzare brani di successo nel breve termine, senza preoccuparsi di costruire un rapporto duraturo con il pubblico. Questo impatta sulla qualità di musica e testi, che devono colpire subito e non restare nel tempo.

Va detto, a (parziale) discolpa degli artisti, che l’industria musicale richiede esattamente questo: successo tutto e subito.

E’ un circolo vizioso, un vicolo cieco da cui pochi riescono ad uscire.

Il ruolo degli ascoltatori

Ma l’ascoltatore è vittima o complice di questo processo? Parlare di un ascoltatore totalmente vittima del “sistema” andrebbe a sminuire il ruolo fondamentale del pubblico nel successo di un brano e di un artista e l’autodeterminazione e capacità di giudizio dello stesso.

Quindi? Il fruitore di musica va a configurarsi come complice di questo meccanismo “usa e getta”. O, nella visione più pessimistica possibile, la musica “usa e getta” è quella che rispecchia più fedelmente il pubblico generalista, vittima del consumismo e bisognosa di sempre più contenuti e intrattenimento.

Basta scorrere i commenti e i tweet di persone che richiedono agli artisti, anche a distanza di soli pochi mesi dalla pubblicazione di un progetto, quando sarà la prossima pubblicazione.

Conclusioni

Posto che la musica nasca come intrattenimento, tutti questi fattori hanno probabilmente estremizzato il concetto, rendendolo un prodotto puramente da commercializzare e non arte.

Gli artisti hanno ormai interiorizzato il dovere di creare prodotti facilmente vendibili, spinti dalla richiesta spasmodica di nuova musica settimanale da parte del pubblico. Il pubblico, dal canto suo, è sempre più interessato a musica di contorno e che non richiede impegno all’ascolto.

Quindi, ritornando alla domanda su cosa resterà della musica di oggi tra venti anni, la risposta è: probabilmente niente o veramente poco perchè ognuno degli attori coinvolti (industria musicale, artisti, autori e pubblico) agisce, consapevolmente o meno, in modo che non resti nulla.

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