Sostenibilità e innovazione sono gli obiettivi sui quali puntare per affrontare la crisi, invece che scegliere di contenere i costi.
E’ da qualche tempo ormai che si ragiona solo per cifre: a quanto è arrivato lo spread, a quanto ammonta il debito pubblico, e così via; i numeri sembrano diventati una cosa essenziale, un metro di valutazione del nostro vivere, della nostra economia, anteponendo la quantità alla qualità delle cose e di qualità il nostro Paese ne ha da vendere.
Ormai la nostra penisola è sotto la lente di molti, ma non tutti sanno che oltre al PIL, indicatore che misura la crescita economica di un paese, esiste anche il PIQ, un indicatore che misura la qualità nel processo di produzione. Ed è proprio la qualità il valore aggiunto e “l’ingrediente” che contraddistingue l’Italia.
Come spiegato in precedenza, il PIQ è un indicatore che misura la qualità nel processo di produzione. L’obiettivo è quindi misurare il posizionamento e le performance di un Paese o di un settore di attività rispetto al parametro della qualità. L’indice è, infatti, la risultante della sommatoria delle quote percentuali di qualità, in ciascun settore di attività previsto dalla contabilità nazionale, moltiplicate per il rispettivo valore aggiunto. Questa quota di qualità non si traduce in un sintetico numero puro, ma in un valore monetario, in euro correnti, delle produzioni di beni e servizi di qualità.
Uno studio presentato di recente a Roma da Unioncamere e dalla Fondazione per le qualità italiane Symbola, denominato “Rapporto PIQ: Prodotto interno qualità” ha rilevato quanta parte dell’economia del nostro Paese, e quindi del PIL, è riconducibile alla qualità e come tale può essere misurata e monetizzata.
Il ruolo della qualità come driver della competitività
Analizzando l’andamento di PIL e PIQ per il biennio 2010/2011 si evidenzia come la qualità cresca a un tasso superiore: 3% per la crescita nominale del PIQ contro l’1,5% del PIL.
Ciò vuol dire che le imprese per sopravvivere alla crisi e cercare di andare avanti hanno scelto di investire in qualità e innovazione invece di contenere i costi.
Dall’indagine Unioncamere-Symbola è emerso, infatti, che le imprese che puntano sulla qualità realizzano anche migliori performance nelle esportazioni. Analizzando l’andamento dei Valori Medi Unitari delle esportazioni, assunti come indicatori dell’evoluzione qualitativa delle nostre produzioni, si è scoperto che nel periodo di profonda crisi, 2007-2011, le nostre imprese hanno mediamente accresciuto del 10,7% il valore delle esportazioni al netto dei costi di produzione; molto di più di quanto osservato nella media europea e più di quanto associabile alla Germania e alle altre grandi economie del Continente.
L’Italia in PIQ
Grazie a innovazione, ricerca, creatività, cultura e saperi territoriali, il Prodotto Interno di Qualità, calcolato per il 2011, è stato pari al 47,9% del PIL, per un valore che ha sfiorato i 460 miliardi di euro. Non solo il PIQ 2011 vale quasi la metà del nostro Prodotto Interno lordo ma rispetto al 2010, quando era pari al 47% del PIL per un controvalore di 445 miliardi di euro, può vantare una crescita nominale di oltre il 3%.
Dall’analisi della ricerca è emerso che i settori macroeconomici dove è più elevata la presenza di qualità sono quelli dei servizi e dell’industria in senso stretto, che contribuiscono al PIQ nazionale rispettivamente con 300 e 121 miliardi di euro. Seguono lecostruzioni e l’agricoltura con 28 e 10 miliardi di euro. Per quanto riguarda il terziario si distinguono nel segno della qualità tre comparti in particolare: i servizi finanziari, dove il PIQ incide per il 59,2%, la sanità e l’assistenza dove l’indicatore incide per il 53,4%, e l’istruzione, dove la qualità incide per il 50% del valore aggiunto. Mentre i settori industriali a maggior incidenza di qualità sono la chimica e farmaceutica (59,6%), la meccanica (53,0%), i mezzi di trasporto (51,9%), l’industria della gomma e della plastica (50,1%), l’industria cartaria e della stampa (49,6%), l’elettronica (49,1%), l’alimentare (49,0%), il tessile (48,8%) e le industrie conciarie (46,7%).
A livello territoriale l’area dove l’indicatore è cresciuto maggiormente è quella del Nord-Ovest, in cui la quota del prodotto di qualità ha raggiunto il 56,2% del valore aggiunto contro il 51,9% del Nord Est. Sotto la media, invece, si collocano il Centro e il Mezzogiorno con percentuali rispettivamente del 45,8 e del 30%.
Passando alla graduatoria delle regioni, la Lombardia si distingue come locomotiva della qualità italiana. Da questa regione, infatti, arrivano 132 miliardi di euro, pari al 28,7% del PIQ nazionale. Seguono a distanza Lazio (50 miliardi), Veneto (48,6), Emilia Romagna (48,4) e Piemonte (42,9).
Nella zona media della classifica, troviamo Toscana (29,6 miliardi), Campania (18,2), Trentino Alto Adige (12,2), Sicilia (11,8), Puglia (11,5), Liguria (10,9) e Marche (10,2).
Chiudono la classifica: Abruzzo (5,3 miliardi), Umbria (4,8), Sardegna (4,3), Calabria (3,4), Basilicata (1,4), Molise (1,1) e Valle d’Aosta (0,9 miliardi).
Insomma, la chiave di volta per sopravvivere alla crisi finanziaria, sembra proprio essere la qualità, il biglietto da visita che da sempre caratterizza il Made in Italy.
Articolo molto interessante ed foriero di nuove opportunità.
Tuttavia credo che la crisi attuale – come descrive magistralmente l’imprenditore Bruno Musso nel suo nuovo libro “Scacco alla crisi” – sia molto più strutturale di quanto appai, per molti aspetti ancora peggio di quella del ’29, da cui se esca solo con una radicale ristrutturazione del settore pubblico che governa ormai oltre il 50% dei PIL dell’occidente. Cioè – tutto sommato – la componente “indutriale” è già sufficientemente efficiente (certo, sempre ulteriormente migliorabile con le applicazioni suddette !) ma il vero salto di sviluppo si avrebbe solo incidendo pesantemente nella componente “pubblica” …