Denaro e silenzio, la strategia dei Casalesi per tornare ai vertici del sistema criminale

Quando mancano i morti, manca la pubblica indignazione. Su questo principio il clan dei Casalesi sta ricostruendo la sua ragnatela di potere dopo gli arresti dei boss storici.

Lo Stato contro la Camorra

L’8 giugno 2014, poco dopo mezzanotte, le strade di Casal di Principe si sono riempite di gente come mai era successo prima a quell’ora. Per circa trent’anni, in questo comune del casertano di circa 20mila abitanti, il coprifuoco era stato scandito dalle guerre di camorra tra le opposte fazioni del clan dei casalesi.

Quel giorno di quasi estate, però, stava segnando una svolta: l’elezione a sindaco di Renato Natale, medico di 64 anni definito dai giornali come “sindaco anti-clan” e dal collaboratore di giustizia casalese Roberto Vargas “l’unico politico che ci ha sempre combattuto.” Pochi giorni dopo, in un’audizione al Senato sul 41bis, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti avrebbe detto che “il clan dei casalesi non esiste più: è stato sconfitto nel suo potere militare ed economico.”

La storia giudiziaria degli ultimi otto anni, d’altronde, sembrava permettere una dichiarazione del genere. Il 14 gennaio 2009 i carabinieri avevano arrestato Giuseppe Setola, detto “‘O Cecato”, autore con altre cinque persone della strage di Castel Volturno, nella quale sei ragazzi africani e il titolare di una sala giochi vennero uccisi a colpi di kalashnikov in una sartoria del paese.

Il 17 novembre 2010, dopo 14 anni di latitanza, la squadra mobile della Questura di Napoli era persino riuscita ad arrivare al boss Antonio Iovine, detto “‘O Ninno”, all’epoca inserito nella lista dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Quasi un anno dopo, finirà in manette anche il “re del cemento” Michele Zagaria, “il più potente e il più feroce boss del clan dei casalesi” — secondo la definizione di Catello Maresca, Pubblico Ministero che per tre anni ha indagato sugli spostamenti del capoclan fino al suo arresto avvenuto in un bunker costruito sotto un’abitazione a Casapesenna, non lontano da Casal di Principe.

Con i boss Francesco Bidognetti e Francesco “Sandokan” Schiavone già in carcere dagli anni Novanta, e il fondatore Antonio Bardellino ucciso in Brasile nel 1988, il clan dei casalesi aveva perso ogni riferimento al vertice: per la prima volta dopo tre decenni, la provincia di Caserta viveva un periodo che i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) non esitarono a definire pax mafiosa.

Insomma: per arrivare a un vero e proprio omicidio di camorra, come confermava la DNA nella relazione annuale 2015, era ormai “necessario risalire al 2010”: l’esercito dei casalesi, seguendo ancora le parole del procuratore Roberti, poteva finalmente dirsi sconfitto.

Il fatto che nessuno spari più, tuttavia, non significa automaticamente che nessuno faccia più affari con la criminalità organizzata. Anzi, “non credo proprio,” spiega a VICE News Marcello Ravveduto, docente universitario, studioso delle mafie e referente di Libera, parlando delle possibili evoluzioni del clan dei casalesi.

“I processi economici sono più floridi proprio quando non si spara, che quando si spara, ” continua: “non basta colpire l’ala militare di un clan che, per trent’anni, si è radicato sul territorio. L’arresto di Nicola Cosentinola sua condanna a nove anni di carcere dimostrano che i casalesi erano capaci di avere rappresentanti all’interno del governo nazionale, come riusciva a fare Cosa Nostra nei suoi anni d’oro.”

“Non dimentichiamo — aggiunge — che i casalesi sono riusciti a strutturare i loro affari nei mercati legali, come quello dei rifiuti, ma anche nelle grandi agenzie di distribuzione del pane e del latte, negli appalti edilizi, nelle agenzie di scommesse autorizzate.”

Un’economia criminale, in sostanza, “non ha per forza bisogno di persone con le pistole in mano,” continua Ravveduto, “soprattutto in un contesto a tradizionale insediamento mafioso. Se il boss è in carcere, a portare avanti gli affari ci sarà un suo sottoposto o un suo uomo di fiducia. Tanto l’interlocutore saprà sempre con chi ha a che fare. È la storia di tutte le imprese, comprese quelle mafiose: ci sono centinaia di persone che vivono grazie a quel tipo di economia, e che non perderanno certo tempo a reinvestire capitali sporchi solo perché Iovine e Zagaria sono in carcere.

Mettere da parte le armi significa anche una minore attenzione mediatica. Secondo Ravveduto, “la narrazione mediale si è ormai spostata su Napoli e su questa nuova forma di terrorismo urbano” caratterizzato dalle “stese” e dagli omicidi che si consumano nelle strade del capoluogo, anche in pieno giorno.

I numeri diffusi annualmente dalla Questura delineano un quadro nel quale, accanto alla pax mafiosa dell’entroterra casertano, si diffonde sempre più forte l’aspetto violento e ‘muscolare’ della camorra napoletana.

42 omicidi nel 2010 e nel 2011, 62 nel 2012, 44 nel 2013, 47 nel 2014, 40 nel 2015, tra cui le vittime innocenti Luigi Galletta (meccanico di 21 anni, ucciso il 31 luglio perché si era rifiutato di modificare alcuni scooter delle “paranze”, necessari ai loro raid), e il 17enne Genny Cesarano (colpito dai proiettili di una stesa il 6 settembre, nel Rione Sanità). Nel periodo in cui le pistole casalesi hanno taciuto, a Napoli sono state uccise più di 200 persone.

Di conseguenza, “il racconto mediatico si è spostato dove si è spostata la violenza,” dice Ravveduto. Un racconto che non è solo giornalistico, ma anche “di finzione,” che lo scrittore e professore di filosofia Giuseppe Montesano definisce come “lo spettacolo della camorra”, in cui “gli aspiranti criminali si rispecchiano gaudenti ed esaltati” all’interno di una cultura camorristica “che occupa la scena quasi da sola: film, serie, libri, media: tutti amplificano, per motivi non sempre nobili, la spettacolarità di quella cultura.”

La stessa tendenza alla sovraesposizione dei clan di Napoli città di cui parla Montesano, viene definita dai sociologi Valentina Cremonesi e Stefano Cristante — autori del libro “La parte cattiva dell’Italia” — come “involontaria esaltazione dello stile di vita mafioso.”

“La nostra è una cultura mediale molto basilare — sottolinea Ravveduto —, legata al racconto del sangue. In genere, quelli che emergono sono piccoli elementi di comunicazione che rischiano di far perdere di vista il quadro generale. La forza dei casalesi, d’altra parte, è stata quella di non far parlare di sé per tanti anni. Anche per questo abbiamo faticato tanto per dimostrare la presenza delle mafie al Nord Italia, dove si è sparato e ucciso molto poco.”

Quando mancano i morti, in sostanza, manca la pubblica indignazione. Una strada praticabile per ricostruire pezzo dopo pezzo quell’economia criminale su cui i casalesi hanno fondato un’azienda fra le più floride d’Italia per decenni.

Per capire cosa si intende con “economia criminale”, a Casal di Principe e in tutti i territori del basso casertano, bisogna analizzare ciò che è successo negli ultimi cinque anni.

Si tratta di un processo analogo, per certi versi, a quello delle zone di guerra: una forza esterna — in questo caso forze dell’ordine e magistratura — interviene per combattere l’esercito occupante; una volta vinta la battaglia, con la cattura dei boss nemici, restano le macerie. Nel caso di Casal di Principe, come di tutti i comuni che compongono la vasta area casertana, le macerie si chiamano però “povertà” e “mancanza di lavoro”, le stesse leve che un clan di grande potenza economica come quello dei casalesi intende sfruttare per tornare a essere ciò che era fino a poco meno di un decennio fa.

“A inizio novembre abbiamo attivato il servizio Spesa Solidale,” spiega a VICE News il sindaco di Casal di Principe, Renato Natale. “Un contributo da 25 euro per componente familiare, erogato in base a una graduatoria che teneva conto del disagio socio-economico dei richiedenti. Abbiamo ricevuto 516 domande, pari ad altrettanti nuclei familiari. Parliamo, quindi, di oltre duemila persone, circa il 10 per cento della popolazione di questo paese.”

Un dato indicativo di ciò che rimane della Casal di Principe di oggi, dove esiste un problema sociale del tutto irrisolto, accanto alle grandi iniziative di ‘resistenza’ — come la NCO (Nuova Cooperazione Organizzata), cooperativa che coltiva prodotti a chilometro zero nelle tenute confiscate ai boss; le iniziative artistiche, come la mostra in collaborazione con la Galleria degli Uffizi ospitata nel 2015 all’interno della Casa Don Diana; e al grande fermento delle associazioni antimafia.

“La dittatura militare dei casalesi ha devastato questo territorio,” continua il sindaco Natale. “È inutile fermarsi alla fase della repressione, se poi non si procede con quella della ricostruzione. Bisogna attuare un passaggio graduale alla legalità, far capire alla gente di questo paese che la legalità conviene. Io, al contrario, oggi mi ritrovo con 516 domande di sussidio cui non potrò far fronte, e con le richieste della procura di Napoli e della procura di Santa Maria Capua Vetere, che ci impongono di abbattere oltre 140 case abusive sorte quando qui non c’era alcuno strumento urbanistico e alcun piano regolatore.”

Abbattere quelle case, in un territorio delicato come la provincia di Caserta, potrebbe avere conseguenze sociali devastanti. “È chiaro che un cittadino che si trova senza casa e senza lavoro — spiega Natale — potrebbe essere indotto a pensare ‘almeno quando c’erano loro si stava bene’. Come Stato e come istituzioni dobbiamo formulare proposte alternative a questa economia criminale. È chiaro che chi non troverà risposte nel sindaco, le cercherà da un’altra parte, magari nel datore di lavoro a nero. Ciò significa distruzione del consenso attorno a noi e ritorno del consenso intorno ai criminali: il rischio di un ritorno al passato c’è.”

D’altra parte, che il clan dei casalesi sia “dormiente” ma non “morto” lo confermano anche le fonti giudiziarie. La Direzione Nazionale Antimafia parla di una “mutazione, non solo della composizione dell’organizzazione, ma anche del suo modo di agire.”

In questo contesto, “il ricorso alla violenza è sempre più relegato a essere extrema ratio, mentre i reati a più intenso rilievo patrimoniale — dal riciclaggio al reimpiego, dalla gestione degli appalti alla gestione delle puntate e delle scommesse d’azzardo online e sulle slot, dall’usura alle estorsioni, commessi da affiliati ovvero da soggetti legati o contigui al clan — non mostrano alcuna flessione.”

Sul “fronte casalese — continua la DNA — appaiono scarsamente operativi i clan Bidognetti e Iovine, mentre maggiormente preoccupante risulta l’operatività dei clan Zagaria e Russo-Schiavone,” quest’ultimo particolarmente vicino “al gruppo politico-imprenditoriale dei Cosentino.”

Le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia confermano il quadro. Nel gennaio 2015, il tribunale di Napoli emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 24 persone, “ricostruendo il regime di assoluto monopolio instaurato, dalla predetta organizzazione, negli appalti e negli affidamenti diretti di lavori all’interno dell’ospedale di Caserta grazie alla collusione di numerosi pubblici amministratori,” scrive la DNA.

L’indagine “Medea”, condotta dalla DDA di Napoli, aveva portato nel luglio 2015 all’arresto di 13 persone, con l’accusa di turbativa d’appalto per l’assegnazione dei lavori di manutenzione idrica nel territorio Sarnese-Vesuviano. L’obiettivo era quello di affidare il lotto a imprenditori ritenuti vicini al clan dei casalesi, fazione Zagaria: la Idroeco Srl di Lorenzo Piccolo, e il Consorzio Stabile Grandi Opere Scarl di Antonio Fontana.

In particolare, il giudice per le indagini preliminari Elge Pilla parlava di lavori banditi per “manutenzione, pronto intervento, rifunzionalizzazione, ricostruzione e riabilitazione delle reti idriche e fognarie, per un importo stimato di 31 milioni e 710mila Euro.”

Sono solo due esempi, i più recenti, che mostrano come il clan casalese abbia rinfoderato pistole per far parlare il potere dei capitali. Quelli che a Casal di Principe, come in tutto il Casertano, stentano ancora oggi a circolare per vie legali.

Se non si creano le condizioni per uno sviluppo alternativo del territorio, la vittoria di Renato Natale a sindaco sarà destinata a essere un fenomeno passeggero,” spiega Marcello Ravveduto.

Se le forze del mercato sono queste, impregnate di forme criminali, tutto rischia di tornare come prima. Se a Casal di Principe il 10 per cento della popolazione chiede un sussidio da 25 euro per fare la spesa, è segno che un grande nucleo di persone viveva, anche in termini di indotto, attraverso un’economia malata. La magistratura può mettere in galera i boss, ma a queste condizioni ci sarà sempre chi sarà pronto a raccogliere il testimone. E, dall’altro lato, ci sarà chi sarà disposto ad accettare quelle condizioni criminali pur di sopravvivere nella vita di ogni giorno.”

La mafizzazione del clan casalese,” come la definisce Ravveduto, si delinea in quest’attività sommersa ma continua. A confermarlo è lo stesso Franco Roberti nel settembre 2016, quando il procuratore partecipò come relatore a una Summer School sul giornalismo investigativo organizzata a Casal di Principe.

“Lo ripeto: il clan casalese, così come fondato da Bardellino e Schiavone, è stato sconfitto. Il problema è che non sono stati ancora colmati quei vuoti di sviluppo, su tutti infrastrutture e occupazione, che possono essere nuovo terreno di innesto per una criminalità organizzata rinnovata nelle forme e negli uomini.”

Il procuratore Roberti apre anche nuovi scenari, oltre a quelli legati ai mercati legali. “Il traffico di droga, ad esempio, qui è sempre presente, e i nuovi pusher stanno combattendo per raccogliere l’eredità dei boss precedenti. Parlare solo di arresti sarebbe troppo semplice. È lo Stato che deve far sentire forte la sua presenza, non solo attraverso l’attività repressiva, ma offrendo concrete opportunità di riscatto, investimenti, servizi pubblici. Alle condizioni di oggi risulta piuttosto difficile, per i giovani di Casal di Principe, riporre speranze nel loro futuro.”

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