Si dice che tutte le famiglie abbiano i loro segreti. Ma le famiglie dello show business? I loro segreti sono a un altro livello.
Per anni, il nome Miramax è stato uno dei marchi più venerati di Hollywood, indice di classe e intelligenza nelle storie sostenute. Fondata da Harvey e Bob Weinstein, fratelli del Queens, New York, il nome è un misto tra Miriam e Max, la madre e il padre, la cui presenza incombeva sui figli sia in vita che in morte. Infatti è stata la morte della madre che Harvey ha usato come pretesto, nel novembre 2016, per attirare l’aspirante attrice Jessica Mann nel suo hotel. Harvey, ha affermato all’inizio di quest’anno in tribunale, le aveva detto di “aver bisogno di essere consolato per il suo dolore”.
Le accuse e la condanna
L’ex produttore di Hollywood è stato condannato a 23 anni di carcere per stupro e crimini sessuali. L’11 marzo 2020 è stata pronunciata la sentenza. Lo scorso 24 febbraio una giuria di New York composta da sette uomini e cinque donne aveva dichiarato Weinstein colpevole.
Nell’ottobre del 2017, due inchieste del New York Times e del NewYorker avevano raccolto testimonianze di decine di donne che gravitavano nel mondo dello spettacolo statunitense che accusavano Harvey Weinstein di molestie sessuali e stupro. Le storie si sono moltiplicate con il passare dei giorni, coinvolgendo altri uomini di potere negli USA e in altri paesi del mondo, sull’onda del movimento MeToo: le donne hanno rotto il silenzio, iniziando a denunciare ad alta voce molestie, stupri, aggressioni sessuali.
Lo scorso 24 febbraio, dopo una discussione durata cinque giorni, a New York una giuria composta da sette uomini e cinque donne ha dichiarato Weinstein colpevole di atti sessuali criminali di primo grado (rapporti sessuali anali o orali ottenuti con costrizione o se la vittima era fisicamente indifesa, pena fino a 25 anni di carcere) per un episodio avvenuto nel 2006 e di stupro di terzo grado (rapporti sessuali forzati con una persona che non ha dato chiaramente il proprio consenso, che non è in grado di darlo o minore di 17 anni, fino a quattro anni di carcere) per uno risalente al 2013.
Weinstein è stato invece prosciolto da altre tre accuse più gravi, tra cui aggressione sessuale predatoria (che prevede anche l’ergastolo) e stupro di primo grado. L’ex produttore si era dichiarato “non colpevole” per tutte le accuse. La sua avvocata, Donna Rotunno, ha detto che il suo cliente farà appello.
Il procuratore distrettuale di New York, Cyrus Vance, invece, ha fatto un plauso al coraggio delle vittime che hanno deciso di parlare: «Weinstein con le sue manipolazioni, le sue risorse, i suoi avvocati, il suo apparato di pubbliche relazioni e le sue spie ha fatto tutto quello che ha potuto per mettere a tacere le sopravvissute. Ma non potevano essere messe a tacere, hanno parlato con il cuore e sono state ascoltate».
Weinstein è coinvolto anche in un altro processo per violenze e molestie sessuali, che si terrà a Los Angeles, e diverse cause civili.
Il processo Weinstein
Il processo Weinstein era iniziato a New York lo scorso 6 gennaio. Nonostante l’ex produttore fosse stato denunciato pubblicamente da oltre 100 donne, il procedimento in tribunale si è bastato sulle accuse di due persone: la sua assistente di produzione Mimi Haleyi e Jessica Mann, aspirante attrice all’epoca dei fatti. Altre accuse non sono rientrate nel processo, perché troppo lontane nel tempo o perché non ricadenti nella giurisdizione di New York.
Haleyi ha raccontato che Weinstein l’aveva costretta nel 2006 a un rapporto orale nel suo appartamento di Soho, dove l’aveva invitata con il pretesto di un appuntamento di lavoro. Le cose sembravano svolgersi normalmente, quando il produttore si è improvvisamente lanciato verso di lei provando a baciarla. Haleyi l’ha respinto, e lui l’ha portata in camera da letto, spingendola sul letto. «Ho provato ad alzarmi e mi ha rimesso giù. Ho detto: ‘Non voglio che questo accada’», ha raccontato Haleyi in tribunale, ricordando di aver protestato a lungo, fin quando a un certo punto ha smesso: «Mi sono resa conto che era inutile (….) Se [Weinstein] sentiva la parola ‘no’ era come una spinta per lui». Per questo episodio l’ex produttore è stato accusato di atti sessuali criminali.
Le accuse di stupro, invece, derivano dalla testimonianza di Jessica Mann, che ha raccontato di aver subito violenza sessuale da Weinstein nel 2013: una prima volta a una festa alla quale la donna aveva partecipato insieme alla sua coinquilina (il produttore l’aveva spinta in una camera d’albergo e costretta a un rapporto orale); e poi in un incontro seguente, ancora una volta in una camera d’albergo, dove Weinstein le aveva chiesto di spogliarsi, le aveva impedito di uscire e l’aveva violentata.
Mann ha anche spiegato che da quel momento in poi si è instaurata con il co-fondatore della Miramax una relazione violenta e sessualmente umiliante, che aveva paura di interrompere, temendo la reazione di Weinstein e possibili ripercussioni sulla sua famiglia.
Anche Haley aveva mantenuto rapporti con il produttore dopo la violenza. Questa circostanza è particolarmente rilevante perché capovolge i luoghi comuni su come si comportano o dovrebbero comportare le sopravvissute di un’aggressione sessuale, decostruendo il mito della “vittima perfetta”. E questo potrebbe avere un impatto su come i crimini sessuali verranno trattati in futuro.
I legali di Weinstein hanno usato i successivi rapporti mantenuti dalle vittime con il produttore per affermare che ogni incontro sessuale era consensuale. Come scrive Anna North su Vox, “la sola prospettiva di un argomento del genere ha trattenuto in passato procuratori dal portare a processo casi come quelli di Mann e Haley”.
Nella sua cronaca del processo, Ed Pilkington afferma sul Guardian che “l’ufficio del procuratore distrettuale di New York ha fatto una grossa scommessa su come ha organizzato il processo. I pubblici ministeri hanno scelto come accusatrici principali due donne, entrambe le quali hanno continuato ad avere contatti stretti e talvolta sessuali con Weinstein dopo essere state aggredite. In passato, i pubblici ministeri si sono quasi sempre opposti a casi di questo tipo, in cui sesso forzato e consensuale coesistono, considerandoli troppo confusi per ottenere sentenze di colpevolezza”.
Il fatto che questa tattica abbia funzionato con la giuria fa pensare che i pubblici ministeri possano avere “un margine di manovra più ampio in futuro per affrontare casi in cui le vittime continuano a gravitare attorno ai loro stupratori dopo l’aggressione – uno scenario che gli esperti dicono sia fin troppo comune ma che fino a questo momento è stato quasi completamente trascurato dai tribunali penali”.
Oltre Haley and Mann, altre quattro donne hanno testimoniato in tribunale, raccontando stupri e molestie da parte di Weinstein. Le loro accuse erano troppo vecchie per andare a processo, ma sono state utilizzate per avvalorare quelle di Haleyi e Mann. Tra queste, è stata sentita anche l’attrice Annabella Sciorra, una delle prima donne ad accusare Weinstein nel 2017, che ha raccontato di essere stata stuprata nei primi anni 90 nel suo appartamento di New York. L’attrice ha anche detto che il produttore in seguito ha continuato a molestarla.
Il racconto di Sciorra avrebbe potuto portare Weinstein a una condanna per stupro di primo grado – cioè più grave di quello per cui è stato condannato. Nonostante fosse molto preciso e corroborato da testimoni, i giudici, però, non l’hanno ritenuto sufficiente per una sentenza di questo tipo. «La mia testimonianza è stata dolorosa ma necessaria», ha detto l’attrice dopo il verdetto, sottolineando di aver parlato per se stessa e «con la forza delle oltre 80 vittime di Harvey Weinstein nel mio cuore. Anche se speriamo che arrivino altri risultati per avere giustizia assoluta, non possiamo mai pentirci di aver rotto il silenzio. Perché raccontando la verità sul potere apriamo la strada a una cultura più giusta, libera dal flagello della violenza sulle donne».
Le altre tre donne – Dawn Dunning, Tarale Wulff e Lauren Marie Young – sono state chiamate a raccontare le loro esperienze di abuso da parte di Weinstein, delineando una sorta di schema del comportamento del produttore nel corso degli anni.
In 12 giorni di udienze sono stati sentiti 28 testimoni, chiamati dalle procuratrici Joan Illuzzi-Orbon e Meghan Hast, che hanno disegnato, scrive il Guardian, il “profilo di un predatore sessuale freddo e calcolatore, che alla fine ha travolto gli argomenti della difesa. Hanno sottolineato l’enorme squilibrio di potere tra Weinstein e le sue vittime”.
«Era un famoso e potente produttore di Hollywood, che teneva uno stile vita sontuoso che molti di noi non conosceranno mai», ha detto Hast davanti ai giudici, sottolineando che Weinstein vantava amicizie non solo tra l’élite di Hollywood, ma anche tra uomini politici come Bill Clinton.
La strada del movimento #MeToo
Con un comunicato sul sito, il movimento #MeToo ha commentato la sentenza, criticando la “leggi restrittive e ingiuste che regolano le aggressioni sessuali” cui la giuria si è attenuta che hanno fatto sì che Weinstein non fosse condannato per tutte le accuse. Ciononostante “Harvey Weinstein dovrà rispondere per i suoi crimini (…) Ha operato impunemente e senza rimorsi per decenni a Hollywood. E nonostante questo ci sono voluti anni e milioni di voci affinché un uomo fosse ritenuto responsabile dal sistema giudiziario”.
Tra le critiche che sono state fatte alle donne che denunciavano molestie, violenze e abusi c’è stata quella che il movimento #MeToo era andato “troppo oltre”. Si è parlato di “caccia alle streghe”, “processi mediatici”, “vite rovinate” (quelle degli uomini accusati). Eppure, scrive Costance Grady su Vox, “35 mesi dopo che il movimento Me Too è diventato virale, Harvey Weinstein è ancora il primo uomo di alto profilo a essere punito dalla legge per le sue azioni come risultato di quel movimento. E non è stato nemmeno dichiarato colpevole per tutti i capi d’accusa”.
Quello che è successo con il movimento #MeToo sulla scia del caso Weinstein è che “un po’ di uomini di potere sono stati accusati di cose terribili. Alcuni di loro sono stati indagati, e alcuni di questi hanno perso il lavoro. Molti uomini accusati sono diventati impopolari, nonostante avessero comunque legioni di fan rimasti fedeli. E altri uomini accusati sono rimasti presidenti o hanno preso servizio alla Corte Suprema. Queste sono state le conseguenze di un movimento che sarebbe andato ‘troppo oltre’”.
Grady ricorda che nessuno degli uomini noti e di potere accusati è andato a processo. “Fino a questo momento, quando Harvey Weinstein è stato dichiarato colpevole di stupro di terzo grado e di atti sessuali criminali”. Un uomo accusato da tantissime donne, contro il quale ci sono centinaia di racconti di violenze e molestie e con un innegabile storia da predatore sessuale. Eppure, “non dovrà affrontare le conseguenze legali di tutti i crimini di cui è stato accusato”.
Se, dunque, da un lato la condanna di Weinstein ci dice una volta per tutte che non c’è stata nessuna “caccia alle streghe”, dall’altro lato Grady si interroga sulla strada fatta e su quella ancora da fare: “La domanda da farsi non è se #MeToo sia andato troppo oltre. La domanda è se mai sarà in grado di andare abbastanza lontano”.
Dopo il verdetto di New York, Michelle Tuegel, avvocata che difende vittime di violenze sessuali, ha detto al Guardian di aspettarsi che adesso molte più donne denunceranno i loro stupratori: «Non importa quanto sia potente una persona, non importa quanto fango possa essere lanciato verso coloro che hanno il coraggio di farsi avanti, siamo in un nuovo tempo. Per fortuna l’era del #MeToo ha iniziato a smascherare questo sistema di abuso di potere, e ora le donne possono essere ascoltate e credute».
Anna North ritiene che affinché il dibattito attorno al caso Weinstein possa avere un impatto maggiore su tutte le persone che hanno subito violenza sessuale, deve superare i nomi altisonanti, i titoli di giornale, i tribunali e le condanne: “Il processo Weinstein è stato indubbiamente significativo per le tante donne che hanno denunciato di essere ferite da lui (…) e molti legali dicono che il processo potrà aiutare ad aprire nuove strade per i casi di violenza sessuale”.
Ma il percorso per chi vuole denunciare una violenza sessuale negli Stati Uniti (e non solo) è ancora difficile e doloroso. Secondo una statistica pubblicata dall’organizzazione non profit Rape, Abuse & Incest National Network negli Stati Uniti su 1000 casi di violenza sessuale, solo cinque persone vengono condannate. E anche se il caso va in tribunale, North ricorda che testimoniare in aula può essere un momento molto traumatico (come è emerso anche durante il processo Weinstein): “Le donne sono costrette a parlare pubblicamente di qualcosa che avrebbero voluto dimenticare, poi devono sottoporsi a un esame incrociato che ha lo scopo di minare il loro racconto”. Serve supporto per chi denuncia, una seria prevenzione verso le molestie e gli abusi sessuali, non solo nell’industria cinematografica, ma in ogni campo lavorativo. E un vero cambiamento culturale.