Se ne è andato così, a novant’anni in un giorno qualunque di settembre. La notizia della sua morte è stata oscurata dalla pressione mediatica per la pandemia, ma lui, anticonformista per definizione, forse avrebbe preferito così. Ormai erano anni che non si vedeva più a Voghera. Ma era un uomo brillante e delizioso. Era quello che aveva inventato l’invito a fare almeno una gita fino a Chiasso. Lui il mondo lo aveva girato e lo testimoniano le decine di interviste con grandi personaggi europei consegnate alle pagine del “Mondo” di Mario Pannunzio.
Arbasino era un uomo eclettico: scrittore, giornalista, poeta, critico teatrale e deputato (nelle fila del partito radicale).
L’ultima volta l’ho incontrato anni fa alla Scala. Il teatro milanese aveva comprato uno spettacolo dai russi. Ma per risparmiare non aveva compreso nel pacchetto anche il balletto, preferendo servirsi di forze locali. Alla fine dello spettacolo, vedo Alberto che mi viene incontro lievemente alterato: “Ma hai visto il balletto? Sembravano betoniere. Tutto per risparmiare qualche soldo”. Alberto era fatto così. Capace di prendere un aereo solo per andare a Londra o a New York a vedere uno spettacolo che riteneva importante. Era un intenditore e molto esigente.
Carlo Maria Badini, sovrintendente della Scala, al quale riferii il giudizio di Arbasino, allargò le braccia e mi rispose: “E’ già un miracolo che si sia andati in scena, soldi non ce ne sono”.
Da giovane Arbasino (che era di una generazione prima della mia) era stato anche un po’ scapestrato, prima di diventare il raffinatissimo intellettuale che abbiamo conosciuto.
Da quasi sempre gli universitari vogheresi verso Natale mandavano in stampa una specie di almanacco con vignette, pezzi satirici e altro. Una scusa per tirare su quattro soldi con un po’ di pubblicità. Alberto era, ovviamente, fra i collaboratori, ma una volta gli scappò la mano e una signora, offesissima, lo schiaffeggiò nel corso principale. Piccolo scandalo di provincia.
Per anni era stato anche il compilatore di una rubrica (“Il pasticcio settimanale”) su un giornale locale. Rubrica che poi ho ereditato da lui.
Trasferito a Roma è poi diventato l’Arbasino che tutti abbiamo conosciuto, una specie di enciclopedia vivente della cultura. Aveva letto tutto di tutti, ogni tanto, magari senza fare nomi (ma riconoscibilissimi) se la prendeva con quegli intellettuali che passavano per esperti di cose americane o inglesi senza sapere una sola parola di quella lingua.
Da qui la sua battuta forse più celebre: giovane promessa, venerato maestro, solito stronzo.
Qualcosa del vecchio compilatore del numero unico universitario gli era rimasto dentro.