Uno dei temi più caldi, periodicamente al centro dell’agenda politica italiana e non solo, è sicuramente la questione migranti. Tantissimi gli aspetti da prendere in considerazione all’interno di un contesto in cui è difficilissimo trovare un equilibrio, non ultimo quello economico.
Quando si parla di migranti, infatti, una delle tematiche più controverse e dibattute è proprio quella che riguarda i costi effettivi: un vero e proprio balletto di numeri, spesso in contrasto tra loro.
Al netto dell’impatto sociale (che non è oggetto di questa analisi), quanto costa oggi all’Italia la gestione economica dei migranti rispetto alle varie fasi (salvataggio, accoglienza, trasferimenti)?
Possiamo valutare il costo della “emergenza migranti” guardando all’ultimo Documento di economia e finanza, pubblicato lo scorso aprile e che contiene il dato consolidato sul 2021. Su quell’anno, il DEF stima una spesa complessiva di circa 4,4 miliardi di euro. Un aumento molto consistente se consideriamo il livello di spesa prima dell’aumento delle pressioni migratorie sull’Italia, ma che andrebbe contestualizzato: costituisce infatti solo lo 0,26% del PIL italiano, e circa lo 0,5% della spesa pubblica. Insomma, il 99,5% delle risorse pubbliche viene utilizzato per altro.
Andrebbe ricordato inoltre che all’interno di questi 4,4 miliardi di euro che abbiamo speso lo scorso anno, 781 milioni sono stati impiegati per fare missioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, mentre altri 590 milioni sono stime di spesa per garantire l’accesso all’istruzione ai minori e il costo sulle strutture sanitarie nazionali. Scorporando queste due voci, l’accoglienza vera e propria è costata circa 3 miliardi.
È comunque vero che l’Ue “ci ha lasciati soli“: il contributo medio europeo degli ultimi 3 anni per far fronte alle spese italiane sul fronte accoglienza è stato di 77 milioni (meno del 2% delle spese totali), mentre le promesse contenute nel piano di ricollocamento di emergenza dei richiedenti asilo verso altri paesi europei sono state realizzate solo in piccola parte, con il ricollocamento di meno di 13 mila migranti a fronte di 35 mila promessi.
Detto questo, andrebbe ricordato che chi arriva in Italia resta un costo solo fintantoché rimane in accoglienza e non accede al mercato del lavoro. Proprio per questo, è importante lavorare per migliorare l’integrazione di chi arriva in maniera irregolare – e che molto probabilmente, che lo si voglia o meno, visto il livello molto basso dei rimpatri sarà destinato a restare in Italia a lungo.
Altra questione molto delicata è quella dei fondi. Ci sono diversi attori sulla scena: l’Italia che ovviamente gioca un ruolo chiave anche per la posizione geografica,i paesi che fanno ” da scudo” , o quantomeno ci provano, e l’Europa. Tanti soggetti che devono per forza di cose interloquire, ma in questi anni è stato tutt’altro che facile trovare la quadra anche da un punto di vista economico.
Proviamo provare a fare chiarezza rispetto alle cifre e a come sono state convogliate in questi anni nella gestione dell’emergenza. In questo caso i numeri sono meno chiari, anche per la diversità e complessità degli strumenti di volta in volta creati. Per esempio, nel 2015 l’Unione Europea ha lanciato il Trust Fund per l’Africa, un fondo che avrebbe dovuto essere utilizzato per affrontare le “cause profonde” delle migrazioni, che erano identificate nella povertà e nel sottosviluppo.
Il fondo, che prevedeva una dotazione iniziale di circa 3,5 miliardi di euro, messi per metà dagli Stati membri e per metà dalla Commissione europea, non è decollato perché proprio gli Stati partecipanti hanno contribuito in due anni a poco più di 400 milioni di euro rispetto agli 1,75 miliardi inizialmente promessi. Un risultato talmente deludente che la Commissione si è ritrovata a dover trovare ulteriori risorse dal bilancio comunitario, alzando la propria “fetta” di contributo da 1,75 a quasi 3 miliardi.
A fronte di tanta difficoltà a reperire queste risorse, resta da chiedersi se una dotazione di 3,5 miliardi, raggiunta da poco e mai aumentata, sia sufficiente per agire in maniera incisiva in un continente da 1,3 miliardi di abitanti e composto da 54 paesi.
“Aiutiamoli a casa loro” ci costerebbe di più
Resta sul tappeto il problema di chi vorrebbe arginare i flussi migratori aiutando le persone che si spostano “a casa loro”: le evidenze raccolte nell’ultimo secolo dimostrano che in paesi ancora poveri lo sviluppo fa aumentare, non diminuire l’emigrazione, almeno finché non si raggiunge e supera un reddito di circa 7.000 dollari pro capite a parità di potere d’acquisto. Se si considera che oggi i paesi dell’Africa subsahariana hanno un reddito pro capite PPA medio di 3.800 dollari, e che questa cifra ha praticamente smesso di salire negli ultimi tre anni, si capisce come sia difficile sostenere l’argomentazione che vorrebbe collegare un maggiore sviluppo economico a una diminuzione dei flussi migratori.
Per rallentare l’emigrazione dovremmo, quindi, riuscire a raddoppiare il reddito pro capite dei paesi poveri (da 3.800 a 7.000 dollari) e per farlo dovremmo quadruplicare gli investimenti in quelle aree, semprechè riuscissimo a coordinarci con gli altri paesi occidentali che pure hanno degli interessi strategici in Africa, col rischio (concreto) che una parte di questo denaro venga drenato dall’avidità di regimi dittatoriali fuori controllo e da burocrazie notoriamente corrotte.
Tirando le somme, il costo dei migranti sul PIL italiano è pari allo 0,26% (molto più basso di quello che viene percepito dall’opinione pubblica) e la strategia “aiutiamoli a casa loro” non ha funzionato in nessuna parte del mondo negli ultimi 100 anni, anzi ha aumentato i flussi migratori invece di frenarli.
Numeri alla mano, se l’obiettivo è “solo” quello di rallentare l’arrivo dei migranti allora la soluzione più economica è limitare il proliferare di conflitti locali e internazionali, spesso provocati proprio dalle democrazie occidentali che poi ne pagano il conto (economico e sociale), che fanno da detonatore anche per i cosiddetti “migranti economici” (il conflitto tra le varie fazioni libiche crea instabilità e povertà anche nei paesi adiacenti).
Se, invece, l’obiettivo è politico, quindi far uscire questi paesi dalla condizione di povertà, allora non c’è altra soluzione che investire tanto e per molto tempo su infrastrutture, scuola, cultura e tecnologia. Ma in questo caso il conto sarebbe molto salato e non è detto che l’Occidente voglia pagarlo.
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