L’acqua si è trasformata negli ultimi 20 anni da risorsa strategica liberamente disponibile a business con tassi di crescita a doppia cifra, guadagnandosi l’appellativo di “oro blu“. Basti pensare che in Italia i consumi pro-capite di acqua imbottigliata nel 2018 hanno totalizzato 200 litri/anno, in lieve calo rispetto all’anno precedente, ma sempre su livelli molto superiori alla media europea (90 litri/anno).
Quindi, l’industria dell’acqua imbottigliata ha prodotto circa 13,4 milioni di litri nel 2018, di cui solo l’8% destinato all’estero, con un giro d’affari che si attesta sui 2,5 miliardi di euro. Un trend che sembra non conoscere crisi e che ha realizzato elevatissimi tassi di crescita sin dagli anni ’80. Per anni questo settore ha sperimentato un quasi monopolio, anche a causa del Regime delle concessioni delle acque, regolate da norme ormai obsolete, risalenti in particolare al Regio Decreto del ’43.
In molti casi i canoni corrisposti alle Regioni per lo sfruttamento delle acque risultavano vecchi di almeno 30 anni e non tenevano conto dell’elevata crescita registrata dal settore, corrispondendo un quantum solo per l’estensione degli stabilimenti e non per la quantità di acqua trattata.
Per anni dunque, le pochissime società operanti nel settore hanno pagato una cifra irrisoria allo Stato ed alle Regioni, stimabile in appena 5 centesimi per metro cubo di acqua. Niente rispetto a circa 1 euro al metro cubo che un cittadino paga per l’acqua di rubinetto ed alla cifra astronomica (circa 300 euro) che paga per l’acquisto dell’acqua imbottigliata. Infatti, una bottiglia da un litro e mezzo costa in media 40 centesimi (offerte speciali e sottomarche permettendo) e quindi, facendo due conti, il prezzo di quel metro cubo è a dir poco salatissimo!
Per questo motivo, alcuni anni fa una serie di Regioni hanno rivisto gli accordi di concessione, raddoppiando in alcuni casi i prezzi del canone per l’estensione degli stabilimenti e inserendo un criterio che tenga conto anche del volumi di acqua imbottigliati.
I controlli e la normativa. Se il business dell’acqua in bottiglia non ha conosciuto crisi nel 2018, sarebbe utile capire cosa è accaduto nel 2019 e quest’anno, perché l’economia non accenna a ripartire, le famiglie hanno sempre meno soldi in tasca ed anche il carrello della spesa inizia progressivamente a svuotarsi.
Da alcune statistiche sembrano emergere nuove tendenze dei consumatori, che appaiono più razionali nelle scelte dei consumi e nella spesa. Un sondaggio commissionato da Aqua Italia, associazione che raggruppa le aziende leader nel settore del trattamento dell’acqua, ha rilevato che il 75% degli italiani consuma acqua di rubinetto. Le motivazioni che spingono 1 italiano su 3 a consumare l’acqua in casa risiedono innanzi tutto nel buon gusto, nella comodità (evita il trasporto) e nel costo (elemento importante in tempo di crisi).
Ultimo, ma non meno importante fattore che guida le scelte degli italiani, è quello che concerne la qualità delle acque ed i controlli effettuati. E’ indubbio che l’acqua del rubinetto ha molti più controlli. Infatti, un acquedotto che eroga dai 100 ai 1000 metri cubi di acqua, sufficiente per circa 5.000 abitanti, è soggetto ad almeno cinque controlli l’anno. Meno controlli invece vengono effettuati sulle società che gestiscono le sorgenti per l’imbottigliamento delle acque.
Uno studio pubblicato sulla rivista Le Scienze, ha messo in luce che in Italia l’acqua contiene in molti casi sostanze dannose, come l’arsenico, il berillio, il manganese, l’alluminio e persino l’uranio. Lo studio, che ha preso in considerazione centinaia di campioni su tutto il territorio nazionale, ha messo in luce che l’acqua del rubinetto, tutto sommato, è discretamente buona. Ma i valori di queste sostanze nocive ammessi dalla normativa italiana, in deroga a quella europea, sono ancora molto elevati.
La situazione è anche più critica per le acque imbottigliate. Un gruppo di ricercatori delle Università di Napoli, Benevento, Bologna e Cagliari, hanno lavorato in collaborazione con gli scienziati dell’EuroGeoSurveys Geochemistry Export Group, raccogliendo decine di campioni di acqua di 158 marche presenti sul territorio nazionale. Il risultato? I valori delle sostanze tossiche e nocive sono risultati in molti casi troppo elevati e comunque superiori alla normativa europea ed alle direttive fissare dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Chissà che la crisi non abbia aperto gli occhi alle incaute famiglie, riuscendo laddove le agguerrite campagne delle associazioni di protezione dei consumatori non sono riuscite per anni?
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