L’industria dell’intrattenimento americana non si è mai davvero ripresa dalla crisi cominciata con la pandemia. Una crisi che è diventata quella di un modello economico intero e di tutta una città, Los Angeles.
Tra le arti non ce n’è una nella quale gli americani eccellano quanto il cinema e nel mondo non c’è un tempio del cinema più noto di Hollywood, né uno più in crisi. Non è soltanto questione di soldi: è vero, quest’anno gli incassi del botteghino americano hanno superato i 9 miliardi di dollari per la prima volta dal 2020, ma è vero anche che si è ancora lontanissimi dalla cifre – 11 miliardi – del 2019.
Hollywood resta la più ricca e remunerativa delle industrie cinematografiche, e non ci sarebbe da preoccuparsi se questa fosse soltanto questione di soldi e non anche una di identità. “Existential crisis” è una definizione che si è letta spesso nell’ultimo anno in tutti gli articoli e i libri che hanno provato a raccontare lo stato della Settima arte negli Stati Uniti: cos’è Hollywood oggi, e come funziona, e a che serve, e soprattutto a chi.
Una risposta a questa domanda non esiste ancora, ma ci sono degli indizi che possono aiutare a trovarne una. Che Hollywood somigli sempre di più a un’industria vera e propria, una del settore primario o secondario, lo si capisce dall’evento che ne ha segnato la storia recente: lo sciopero degli sceneggiatori e degli attori. Le richieste di chi scioperava erano identiche a quelle di qualsiasi lavoratore che sciopera: essere pagati meglio e tutelati di più, avere la garanzia che le loro idee e le loro fattezze non venissero sostituite con contenuti generati dall’AI. Paura talmente fondata che, mentre scrivo, è arrivata la notizia di una proposta di legge [poi bloccata dal governatore della California Gavin Newsom, ndr] che vieta ai produttori di usare volti di attori ricreati con l’AI, senza avere l’esplicito consenso degli attori (ci voleva il divieto per legge, la situazione è così grave, sì). I creativi come gli operai, rassegnati all’idea di essere ormai un costo tagliabile in un’industria che non si sta facendo nessun problema a sostituire il verbo umano “creare” con quello meccanico “generare”. I problemi che quello sciopero lo hanno reso inevitabile non si sono certo risolti con l’accordo tra le parti.
Negli scorsi mesi il Los Angeles Times ha dedicato una serie di articoli alla questione: leggerli è come assistere in time lapse alla desertificazione di un pezzo di terra un tempo rigoglioso. Si dirà: a Hollywood funziona così da sempre, un periodo di crisi è allo stesso tempo conseguenza e premessa di una serie di successi, alla fine vince chi resiste più a lungo. Nella tomba dello studio system fu concepita la Nuova Hollywood, la fine della nuova Hollywood coincise con l’inizio dell’era del blockbuster negli anni ‘80, i figli dei blockbuster degli anni ‘80 furono gli indie spericolati degli anni ’90, avanti veloce fino ai cinecomic e gli universi condivisi. Cosa viene dopo? Questa è l’altra domanda per la quale una risposta non esiste ancora. I sostenitori delle magnifiche sorti e progressive dicono che succederà quello che è sempre successo: dopo una vecchia Hollywood ne verrà sempre una nuova, la capitale del Paese del cinema resterà sempre Los Angeles, si applicheranno al cinema i princìpi della Reaganomics, la ricchezza generata dal cinema commerciale sgocciolando irrorerà il campo di quello artistico. Sta già succedendo: A24 esiste in questa epoca, ed Everything Everywhere All at Once non sarebbe mai esistito senza il decennio dei supereroi, no?
Gli apocalittici dicono invece che stavolta è diverso, che non siamo davanti all’inceppamento della macchina ma alla sua rottura. L’entertainment industry è ormai un oligopolio dominato da un pugno di potentissimi, e nessuno di questi vuole rischiare capitale proprio in un momento in cui la contrazione dell’economia rende difficile ottenere i prestiti che sono stati l’aria che gonfiava la bolla. Si fa meno e a poco e gli spettatori si devono sorbire sempre più spesso la stessa minestra, di flopbuster in flopbuster. La prova della rottura della macchina non è l’impoverimento del botteghino ma lo svuotamento di una città: Los Angeles.
La classe creativa la sta abbandonando e anche la stessa professione creativa. I problemi, di nuovo, sono gli stessi che affliggono i lavoratori tutti: gli affitti sono troppo alti, la vita costa troppo cara, il lavoro paga troppo poco. Chi campa di idee le porta altrove: A24 esiste in questa epoca ma esiste a New York. E se proprio non si ha voglia di trasferirsi dall’altra parte del Paese, ad Atlanta e Città del Messico ci sono sgravi fiscali che rendono girare un film lì una passeggiata di salute rispetto alla corsa a ostacoli losangelina. Chi vive di tecnica vende la costosissima attrezzatura, salda i debiti, se ne va e cambia lavoro.
L’unica ragione per la quale le produzioni cinematografiche e televisive non sono tutte ferme causa mancanza di manodopera è che le produzioni ormai sono pochissime: in un anno sono diminuite di quasi il 35 per cento, dopo un decennio la bolla è scoppiata, l’adagio hollywoodiano secondo il quale everything is content si è rivelato un’illusione e si è pure scoperto che il pubblico ancora la percepisce la differenza tra film, serie tv, narrativa in generale e content, e il biglietto o l’abbonamento vuole pagarlo in cambio di (buona) narrativa. Ed è proporzionale al numero di produzioni in meno quello di lavoratori dell’industria dell’intrattenimento che hanno deciso di fuggire da Los Angeles.
D’altronde, nessuno visiterebbe L.A. se non fosse la città del cinema, figuriamoci viverci e lavorarci. C’è un nuovo adagio che si sta diffondendo a Hollywood negli ultimi mesi, una specie di autodiagnosi. Riprende una battuta scritta ai tempi in cui Hollywood dominava ancora, incontrastata, sul regno del cinema: «Il cinema non ha mai smesso di essere grande, è Hollywood che è diventata piccola».
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