“Prima regola del Fight Club 2.0: parlate sempre del Fight Club”. I fan del celebre romanzo di Chuck Palahniuk, da cui è stato tratto il film con Brad Pitt e Edward Norton, noteranno subito l’errore. Ma non si tratta di una citazione sbagliata.
Mentre nel Fight Club originale, infatti, la regola più importante era proprio “mantenere il segreto”, nell’era digitale spuntano come funghi fight club organizzati da ragazzi in cui tutto viene ripreso e condiviso sul web e, in particolare, sui social. Un fenomeno che diventa sempre più preoccupante.
A Piacenza, in particolare, è cronaca di qualche giorno fa la notizia dell’intervento delle forze dell’ordine che hanno identificato 63 giovanissimi partecipanti ad uno di questi “spettacoli”, sei dei quali sono finiti in caserma dai Carabinieri. Si tratta di veri e propri incontri di lotta. Luogo e data sono stabiliti direttamente su appositi gruppi social. Il passaparola fa il resto. Il tutto è ripreso e condiviso sui vari profili. Ma mentre i protagonisti dell’omonimo film erano lavoratori e professionisti, tutti maggiorenni, in questo caso colpisce la giovane età dei partecipanti. Quasi tutti minorenni. Anche la Polizia postale si è messa al lavoro per individuare i responsabili di questi episodi attraverso le immagini e le foto condivise sul web. Il questore di Piacenza, Pietro Ostuni, ha lanciato, inoltre, un appello a non inseguire “i falsi miti della violenza” perché si rischia “grosso con la legge”. E poi l’appello a genitori e insegnanti: “Prestate attenzione ai nostri ragazzi, a cosa fanno e a cosa dicono, perché è fondamentale”.
Secondo un sondaggio effettuato da Skuola.net, su mille adolescenti, circa 1 su 4 conosce il rito del “Fight Club 2.0”. Quasi il 30% fa parte del gruppo social che li organizza, tra chi partecipa attivamente e chi resta solo a guardare. Ma il dato più inquietante riguarda il ruolo delle famiglie. Secondo il sondaggio, infatti, quasi tre famiglie su quattro sarebbero al corrente della partecipazione dei loro figli al “Fight Club 2.0”. Tutti ne parlano: il 45% dei membri del club ha condiviso questa sua passione con tutti i suoi coetanei: il 15% con i più stretti, il 19% solamente con gli appartenenti al gruppo dei ‘combattenti’ e appena il 21% non ne ha parlato con i suoi amici.
La motivazione alla base delle risse organizzate via social (perché di questo si tratta), c’è la voglia di trasgressione, di provare emozioni forti, tipiche degli adolescenti e amplificate dalla popolarità che foto e video “virali” offrono a chi li condivide. I rischi, chiaramente, sono enormi, non solo per la violazione di norme di legge, ma anche per le ferite e i traumi dovuti agli scontri.
Ma i fight club sono solo l’ultima insana moda, che si è sviluppata con l’avallo dei social. Le cronache ci raccontano dei “daredevil selfie”, le foto estreme scattate nei cantieri, sui ponteggi o con l’arrivo dei treni in corsa che hanno causato non poche giovani vittime in tutto il mondo. Ricordiamo anche il fenomeno del “bluewhale” che può portare a manipolare il comportamento degli adolescenti e spingerli a compiere atti estremi, oppure il blackout game o gioco dello svenimento. Sono pratiche che esaltano la violenza e fenomeni di bullismo e cyberbullismo.
Come uscirne? Bella domanda, direbbe qualcuno. Forse solo accentuando la capacità di ascolto e confronto con i nostri ragazzi e recuperando il valore e la credibilità della scuola e della famiglia. Oltre a rafforzare l’alleanza con le altre istituzioni del territorio. E poi, aggiungendo il vecchio consiglio dei nostri cari nonni: dare l’esempio. Guarda caso, anche il Fight Club è un’invenzione di noi adulti.
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