Se il sociologo e filosofo Baudrillard in modo paradossale individuava nella catastrofe l’unica risorsa possibile per il Sud, il binomio cinema/crimine rappresenta una fonte infinita di metafore e situazioni chiave per indagare in modo originale sul nostro presente. Non a caso nella commedia, da “La banda degli onesti” e “I soliti ignoti” a “Smetto quando voglio”, la realtà italiana è stata spesso sviscerata dosando ironia e comicità, quali strumenti privilegiati per sottolineare la tragicità del vivere e la miseria quotidiana.
Così “Il grande spirito”, quattordicesima regia di Sergio Rubini, qui anche protagonista, affiancato da Rocco Papaleo, trova una cifra originale per raccontare questa catastrofe, quasi post bellica se consideriamo i danni provocati dall’industria, oltre a giocare con i meccanismi tragicomici del crimine. In primo piano è dunque la Taranto affumicata dalle ciminiere dell’Ilva, simbolo di un Meridione che, rinunciando alle proprie potenzialità, si è avvelenato e sta morendo.
Attore tra i più incisivi, da “Intervista” di Fellini e “Una pura formalità” di Tornatore ad “Amnèsia” di Salvatores e “La passione di Cristo” di Gibson, senza dimenticare le sue regie, da “La stazione” a “La terra” e “Dobbiamo parlare”, Rubini alterna al cinema un interessante percorso teatrale. Di rilievo, in quest’ultime stagioni, la sua direzione e interpretazione di “Delitto/castigo” e di “Dracula”, con Carla Cavalluzzi complice nella scrittura e Luigi Lo Cascio nella recitazione. Un’immersione dentro anime tormentate, nel segno di un’ossessiva ricerca di un senso nei sotterranei della coscienza, tra sdoppiamenti della personalità e incubi, lacerazioni dell’anima e dilemmi morali, che sembra influenzare alcune suggestioni che animano in modo differente “Il grande spirito”.
Prodotto da Fandango con Rai Cinema, il film vede l’improbabile malavitoso Tonino (Rubini) fare il colpo della vita, nei bassifondi di Taranto, e poi ritrovarsi braccato dalle bande rivali che, in maniera inattesa, ha beffato. Da qui la scoperta di un mondo a parte sulle terrazze della periferia pugliese, imbattendosi nell’eccentrico Renato (Papaleo) e rifugiandosi nella sua abitazione dimessa, senza luce, in una condizione di clandestinità.
Abituatosi a evadere dal quotidiano approfittando della sua postazione elevata, in un lavatoio dal quale scruta i segnali di fumo delle fabbriche e controlla case e strade in basso, lui non potrebbe essere più diverso dall’aria truffaldina e dalla brama di denaro, mitigata però da un’intrinseca imbranataggine, di Tonino detto “il Barboncino”: indossa una piuma d’uccello dietro l’orecchio e sostiene di chiamarsi Cervo Nero in quanto appartenente alla tribù dei Sioux. In più aggiunge che il Grande Spirito in persona gli aveva preannunciato l’arrivo di un “’uomo del destino”. Si tratta di un personaggio modellato sui silenzi e l’espressività, i tempi comici e la malinconia che caratterizzano Rocco Papaleo, a suo agio nel fare da contraltare spirituale all’attaccamento alle cose materiali incarnato dalla figura impersonata da Rubini, ancora una volta immerso nella sua Puglia.
Un po’ commedia, un po’ film d’azione, un po’ variazione metropolitana di un western disilluso, che mescola intuizioni sociali e sguardi antropologici, “Il grande spirito” si caratterizza per l’ambientazione sui tetti di una Taranto attraversata dal degrado, in un cielo plumbeo e con le nuvole basse che incombono sui superstiti di un’umanità allo sbando e incattivita, vittima e carnefice nella ricerca a tutti i costi di soldi e riscatto.
La regia di Rubini, la fotografia di Michele D’Attanasio, attenta alle oscurità di volti e luoghi, la scenografia di Luca Gobbi, il montaggio di Benny Atria e le musiche di Ludovico Einaudi, con il suo pianoforte palpitante, creano un’atmosfera coinvolgente. Merito di una struttura narrativa efficace, con la sceneggiatura di Carla Cavalluzzi, Angelo Pasquini e lo stesso Rubini (al soggetto ha partecipato anche Diego De Silva), e di sfumature cromatiche e variazioni sonore e visive in parallelo con l’evoluzione della storia, che spazia dal comico al drammatico. Alto e basso, cielo e terra, buio e luce (livida), nuvole e pochi sogni, se non il desiderio di un altrove (il Canada come fuga), risultano dominanti.
L’inserimento di un personaggio che si rifugia nella follia, evocando quegl’indiani soppressi dalla presunzione “Yankee” nel nome della civiltà, conferisce forma e sostanza al susseguirsi di colpi di scena e al montaggio parallelo che accompagna, prima dell’epilogo, le vicissitudini dei due protagonisti. Un terzo ruolo significativo, da vinta ma non per sempre, è quello di Teresa, affidato alla pugliese Ivana Lotito, reduce da “Gomorra 4”. Qui moglie picchiata dal marito e madre disperata costretta a prostituirsi e, dietro le apparenze, solidale con il ribelle Cervo Nero. Gli altri personaggi, dalla Milena di Bianca Guaccero (anche lei pugliese) al delinquente interpretato da Geno Diana, sono maschere grottesche in contrasto con la purezza di Renato. Purezza che, in parte, contamina Tonino, mentre l’incombente immagine delle ciminiere dell’Ilva ci ricorda che il disastro ambientale e sociale è già avvenuto. Un riscatto, spirituale ed economico, è ancora possibile? Il finale è ambivalente e lascia aperta qualche porta interpretativa.
Nel complesso, a “Il grande spirito” manca forse un colpo d’ala, nella volontà di affondare il coltello nelle piaghe del male e nell’approfondimento dei caratteri principali, per raggiungere livelli filmici superiori. Tuttavia, supera momenti convenzionali con alcuni lampi visivi, con l’intelligenza delle battute, più efficaci in dialetto pugliese, e uno sguardo cinematografico ispirato. In futuro Rubini può osare ancora di più e l’intesa interpretativa con Papaleo si fa apprezzare.
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