Il nostro Made in Italy è sempre meno Italy. Sembra un paradosso, una contraddizione in termini ma in un mondo globale dominato da giganti come Stati Uniti e Cina le dimensioni contano ed essere degli straordinari artigiani non basta più. La lista dei brand italiani finiti all’estero è lunga e sembra destinata ad aumentare. Cerchiamo di capire perchè molte delle nostre eccellenze nel settore moda sono state acquisite dai gruppi del lusso internazionale, francesi su tutti.
Sono tanti i fiori all’occhiello del made in Italy comprati da investitori stranieri. Il saper fare delle nostre aziende, la maestria dei nostri artigiani, il genio dei nostri designer, la nostra creatività, la nostra passione e bravura nel fare moda, nel creare uno stile unico nel mondo rappresentano un business. E come tutti i business che si rispettano, fa gola ai colossi stranieri .
I grandi gruppi probabilmente sono meno creativi e geniali di noi, ma sanno fare squadra. Noi no. Non vi siete chiesti come mai in Italia esista solo un grande polo aggregatore di brand del lusso, la OTB – Only The Brave di Renzo Rosso (che, oltre a Diesel, controlla brand come Marni e Maison Martin Margiela) che però non è paragonabile ai colossi francesi LVMH (Louis Vuitton, Givenchy, Fendi, Céline, Kenzo, Dior e Bulgari fanno capo al Gruppo) e Kering (Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, AlexanderMcQueen e Balenciaga), mostri sacri di enormi dimensioni che aggiungono sempre più brand al loro raffinato e inestimabile portafoglio (anche se, in alcuni casi, in questo momento tornano a cedere brand ai loro fondatori, come è recentemente accaduto con Stella McCartney, che Kering ha rivenduto alla figlia del celebre Beatle)? Ci aveva provato anche Prada, ormai 20 anni fa, acquisendo Jil Sander e Helmut Lang. Ma le cose non sono andate come avrebbero dovuto.
Noi possiamo vantare spesso e volentieri imprenditori illuminati. Ma che, tra infiniti pregi, hanno due deficit: intanto, sono soli. Nel senso che malgrado dedichino la loro vita all’azienda, spesso si ritrovano nelle condizioni di non poter o saper pensare a un vero e sicuro ricambio generazionale futuro. Tutto è nelle loro mani e quando non potranno più occuparsi di ciò che hanno fondato, il futuro della loro azienda sarà tutto da pensare, immaginare e costruire.
Poi, spesso, non sono abbastanza forti. Nel mercato globale attuale, le «medie» realtà anche con fatturato di alcune decine di milioni di euro, pur potendo sfoggiare creatività e innovazione, devono davvero faticare molto per riuscire a farsi notare di fronte a gruppi e fondi che investono centinaia di milioni l’anno in negozi diretti e in comunicazione, con ovvie ricadute di notorietà verso i consumatori. Il made in Italy è insuperabile. È esclusivo. È sinonimo di tante parole, tutte bellissime. Ma non basta più a se stesso.
In quest’ottica l’arrivo di capitali stranieri potrebbe non rappresentare necessariamente l’invasione del nemico, bensì il futuro, la possibilità di cavalcare l’onda delle pretese e dei ritmi di un mercato inarrestabile, di valorizzare un tesoro nel tempo. E, soprattutto, a livello internazionale. Niente paura: la cessione della maggioranza potrebbe non comportare, necessariamente, delocalizzazione della manodopera e delle varie fasi di lavorazione: questi colossi, che siano americani, francesi, cinesi o arabi, sanno bene che il genio delle nostre maestranze è impossibile da riprodurre altrove.
Nel migliore dei mondi possibili, insomma, il patrimonio storico delle case di moda italiane viene così preservato con investimenti ad hoc, e il posto di tanti lavoratori salvaguardato. E il nostro cuore, di fronte alle creazioni degli amatissimi marchi, continuerà a gonfiarsi d’orgoglio. Tutto rose e fiori? Forse. Se non fosse per un dubbio: c’è da chiedersi che fine faranno utili e dividendi.
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