Il mistero De Tomaso a 20 anni dalla morte: geniale innovatore, vecchio padrone o primo capitalista moderno?

Alejandro De Tomaso resta un mistero. La sua figura controversa continua a dividere, soprattutto nelle città dove sorgevano o ancora sorgono le tante aziende che ha guidato: Mandello del Lario (Moto Guzzi), Milano (Innocenti), Modena (De Tomaso e Maserati), Pesaro (Benelli).


C’è stata in effetti un’epoca, tra gli Anni ’70 e ’80, in cui De Tomaso era davvero uno dei più potenti (e originali) imprenditori del suo settore, almeno in Italia. Nel giro di pochi anni s’era aggiudicato tutte le aziende che abbiamo menzionato, più qualcun’altra ancora, apparendo agli occhi di molti lavoratori e di parte dell’opinione pubblica come una sorta di “salvatore di aziende in crisi”, che almeno inizialmente rimetteva in carreggiata dopo che avevano vissuto momenti difficili e nessuno sul mercato era disposto ad acquistarsele.

Ma, al contempo, aveva la fama d’essere anche molto duro ed autoritario, al punto da venir definito dai sindacati come uno dei più severi “padroni” d’Italia. Nella lotta coi sindacati, in quei turbolenti Anni ’70, non esitò a ricorrere agli “stipendi di merito” ovvero maggiorati per gli operai più fedeli, a sollevare scandali mediatici accusando molti sindacalisti di fare il doppio lavoro e, addirittura, a presentarsi in certe occasioni ai tavoli delle trattative con una rivoltella che metteva prontamente in bella vista.

E qui sorge il dilemma: De Tomaso è stato l’ultimo padrone alla vecchia maniera, o il primo esponente del capitalismo moderno che iniziava ad affacciarsi proprio in quegli anni nel nostro paese spazzando via le vecchie logiche aziendali? Probabilmente la verità sta nel mezzo, ma una cosa è certa: a completare la fama di De Tomaso, c’è anche il saldo legame con la politica. Fu su sua pressione che vennero varate leggi che proibivano l’importazione di motociclette dal Giappone al di sotto dei 380 cc e a favorire con varie modalità quelle fino ai 350 cc, oltre a prevedere l’IVA maggiorata per quelle oltre i 500 cc. Il tutto a tutela soprattutto delle sue aziende, che in questo modo, in quegli anni, poterono godere di una sorta di quasi monopolio nel mercato italiano.

Inoltre De Tomaso era noto per essere anche “un figlio della GEPI”, la finanziaria di Stato che a quel tempo entrava nel capitale di tutte le aziende in crisi risanandone ogni anno i bilanci e mantenendole così in vita. Oggi, probabilmente, è ricordato soprattutto per questo. Innocenti e Maserati, in effetti, erano condivise fra De Tomaso e la GEPI (che tutti, a quel tempo, ribattezzavano col simpatico nome di “lazzeretto delle aziende”), e non è un mistero che il primo spostasse i passivi sulla seconda per poter poi vantare, ogni anno, i bilanci sempre inappuntabili davanti alle conferenze stampa coi giornalisti che teneva a Modena nel suo albergo personale, il Canalgrande.

In quelle conferenze stampa De Tomaso incantava tutti e ogni volta spiazzava qualsiasi previsione. Aveva sfidato i giapponesi? Bene, l’anno dopo si dichiarava pronto ad allearsi con loro, addirittura comprando i motori Dahiatsu per le Innocenti Mini al posto dei vecchi motori di produzione inglese. Aveva appena stretto un accordo con la Chrysler dell’amico Lee Iacocca? Nessun problema, l’accordo finiva e si passava ad una nuova alleanza, stavolta con la FIAT, fino a quel momento ferocemente criticata.

La sua storia era iniziata in Argentina, a Buenos Aires, dov’era nato il 10 luglio 1928. Apparteneva ad una famiglia possidente, e fu proprio lo stemma della “estancia” di sua nonna quello che poi scelse quando, negli Anni ’60, decise di fondare la propria Casa automobilistica a Modena, la De Tomaso. Era però anche un oppositore di Peron, e proprio per aver partecipato ad una sommossa contro di lui nel 1955 aveva preferito venirsene in Italia, per dedicarsi alla sua grande passione: i motori.

L’esordio non fu proprio lusinghiero: De Tomaso aveva come esempio soprattutto Enzo Ferrari, che negli Anni ’20 aveva cominciato come pilota Alfa Romeo. Ma voleva diventare l’allievo che supera il maestro, e sostanzialmente nella sua vita fu sempre ossessionato dall’idea di “far vedere a Ferrari come si fanno davvero le cose”. Per questo corse con Maserati, OSCA e Scuderia Centro Sud, partecipando a quattro Gran Premi di F1 senza risultati tangibili. In quelle occasioni, però, entrò in contatto con quella che sarebbe divenuta la compagna di una vita, Isabelle Haskell, ricca ereditiera americana giunta anch’essa in Italia per tentare la carriera di pilota, modella, ma soprattutto appartenente ad una famiglia che aveva grosse quote dei colossi dell’auto USA Ford e General Motors. Ciò, indubbiamente, gli fornì delle occasioni fino ad allora insperate.

Con la Vallelunga, il primo modello della De Tomaso, Alejandro introdusse la prima auto sportiva al mondo dotata di motore centrale. Finalmente aveva battuto Ferrari, dando oltretutto vita ad un modello di grande successo, a cui sarebbero seguiti altri due modelli estremamente fortunati nelle vendite come la Mangusta e la Pantera, tutte dotate dei grossi motori sportivi della Ford USA. Meno fortuna ebbe invece la limousine sportiva Deauville, malgrado la presentazione sensazionale: lo stesso De Tomaso la guidò per mezza Italia, presentandosi ai giornalisti coi tagliandi dei caselli autostradali che dimostravano che aveva percorso quella distanza in pochissimo tempo.

Tra il 1970 e il 1971 De Tomaso volle quindi coronare anche il suo sogno più grande: ritornare nel mondo delle corse. La De Tomaso da F1, però, non andò molto bene. Il pilota inglese Piers Courage, a cui aveva affidato la sua monoposto, si schiantò il 21 giugno 1970 nel circuito olandese di Zandvoort perdendo la vita nel grave incendio che ne seguì. La De Tomaso si ritirò dalle corse in segno di lutto e Alejandro non volle più saperne, al punto che quando comprò Moto Guzzi e Benelli ritirò anch’esse dalle corse malgrado i buoni risultati che stavano ottenendo nelle loro varie categorie.

Nel frattempo acquistò le carrozzerie Ghia e Vignale, che poi rivendette alla Ford intascando una discreta plusvalenza, e quindi si mise a comprare una serie d’aziende italiane in quel momento in forte difficoltà. La Benelli, gestita fino ad allora dai litigiosi fratelli Benelli che la stavano portando al fallimento; la Maserati, suo vecchio affetto che era finito in mano alla controversa gestione della Citroen e che era stata messa in liquidazione; la Innocenti, abbandonata dai proprietari inglesi subentrati alla famiglia Innocenti e fallita, ma che prontamente coi soldi della GEPI rimise in cammino; ed infine la Moto Guzzi, da quasi dieci anni di proprietà della finanziaria statale SEIMM, l’unica azienda fra tutte in buone condizioni ma per la quale si cercava comunque un nuovo compratore. Per un eccesso di zelo, comprò infine anche la Calligari e Chigi, specializzata nella costruzione di gommoni, e che qualche anno più tardi regalò ai suoi dipendenti.

L’esordio di De Tomaso in queste aziende fu piuttosto traumatico: l’imprenditore italo-argentino, infatti, era sicuramente molto abile nel creare un prodotto artigianale come le sue De Tomaso, ma indubbiamente impreparato nel gestire un’industria vera e propria. Dato il suo carattere, però, non accettava consigli.

Quando comprò la Moto Guzzi e ne visitò lo stabilimento, vedendo la linea di montaggio dei bicilindrici della Serie Grossa, sbottò: “Basta con questi grossi bicilindrici che la gente non li vuole più!”. Promosse quindi, in sinergia con la Benelli, la nuova gamma delle quattro cilindri copiate dalle Honda CB Four, ma fu un disastro: malgrado l’estetica, il telaio e i freni sicuramente migliori della concorrenza giapponese, la qualità meccanica era a dir poco scadente.

De Tomaso imponeva risparmi nella componentistica e nei materiali a dir poco imbarazzanti, e le macchine utensili non erano adeguate a quel tipo di produzione. Dopo un iniziale successo, le quattro cilindri rimasero a prendere la polvere nei concessionari. Ironia della sorte, a mantenere in piedi i bilanci provvedettero proprio quei grossi bicilindrici che secondo De Tomaso erano ormai finiti, al punto che rendendosi conto dell’errore il “boss” (come amava farsi chiamare) promosse anche l’introduzione di una seconda famiglia di bicilindrici Guzzi, la Serie Piccola, in questo caso un grande successo.

La Benelli 750 Sei, la prima moto al mondo con un motore a sei cilindri, ispirato e derivato dalle già menzionate quattro cilindri, fu un altro buco nell’acqua a causa della scarsa qualità, ma al suo apparire destò un interesse enorme. Poco dopo i giapponesi proposero così delle loro sei cilindri, ma stavolta costruite bene, e per loro fu un bel guadagno. De Tomaso aveva in effetti questo difetto: intuizioni geniali, che precorrevano i tempi, ma prontamente rovinate da un’esecuzione che lasciava assai a desiderare. Fu così, per esempio, con le prime enduro moderne (Benelli BX), coi primi scooter automatici (Benelli S), ma anche in campo automobilistico con la bellissima e purtroppo anche sfortunatissima Maserati Biturbo.

Al suo apparire, nel 1982, la Biturbo sembrò l’auto dei sogni: una piccola coupé dalle linee estremamente sportive ed eleganti, tali da incantare tutti, con abitabilità per quattro ed un buon baule, e soprattutto un motore di 2000 cc, a sei cilindri a V, dotato di ben due turbine. Era l’ennesimo progetto rivoluzionario, che ispirò molti altri Costruttori che però, avendo ben altre risorse e capacità, seppero creare modelli assai più fortunati. La Biturbo, invece, restò in produzione a lungo, per più di dieci anni, evolvendosi in varie versioni, ma giocandosi ben presto il favore del mercato. Prodotta alla Innocenti di Lambrate, dove era possibile la produzione in serie data l’esiguità dello stabilimento Maserati di Modena, aveva numerosi problemi di qualità e d’assemblaggio che la resero tristemente leggendaria.

Lo stesso avvenne per la Chrysler Maserati TC, una “convertibile” rivoluzionaria per i tempi, costruita anch’essa a Lambrate in base alla partnership sviluppata con la Chrysler di Iacocca, ma la cui qualità fece ben presto naufragare anche quell’alleanza.

Tuttavia, nel Gruppo De Tomaso, non mancarono i successi: la Maserati Quattroporte terza serie, l’auto preferita da Pertini; le Moto Guzzi Le Mans, California, SP e della serie T; le Benelli 125 e 250 bicilindriche a due tempi, e così via. Non senza dimenticare le già citate Serie Piccola della Moto Guzzi, che ancora oggi insieme alla Serie Grossa tengono in vita la Casa motociclistica lariana.

Negli ultimi anni De Tomaso cominciò a cedere progressivamente parti del suo impero. Regalata la Callegari e Chigi ai suoi operai e venduta la Benelli al Gruppo Selci, cercò di concentrarsi su Moto Guzzi e Maserati, mentre tentava di dismettere in qualche maniera la Innocenti. Fu proprio al termine di quella durissima vertenza sindacale, che probabilmente a causa anche della tensione De Tomaso accusò un grave ictus dal quale non si riprese più. La moglie e i figli decisero così di vendere anche Innocenti e Maserati alla FIAT e Moto Guzzi alla FinProgetti, mentre nel giro di poco tempo De Tomaso Industries ritornò a chiamarsi Trident Rowan Group, com’era ai tempi del suocero. Trident Rowan Group subentrò nuovamente a FinProgetti nel controllo della Moto Guzzi nel 1996, detendolo fino al 2000, quando arrivò l’Aprilia, ma ormai la famiglia De Tomaso s’era estraniata dalla faccenda.

L’azienda di casa, la De Tomaso, rimase in piedi ancora qualche anno, praticamente fino alla morte del fondatore, che pur ridotto in gravi condizioni cercava sempre di trovare qualche nuova formula per rilanciarla. Il modello prodotto in quegli anni era la Guarà, ma il successo che riscuoteva era piuttosto tiepido. Assistito dal figlio Santiago, De Tomaso iniziò un accordo coi russi di UAZ per realizzare un fuoristrada ad hoc in un nuovo stabilimento, da costruirsi per l’occasione, a Cutro, in Calabria. Ma il 21 maggio 2003 morì, e di lì a poco non si parlò più di tali progetti. Poco tempo dopo anche la De Tomaso chiuse i battenti, e i vari tentativi di riportarla in vita, cominciando da quello operato da Rossignolo, si conclusero in maniera piuttosto imbarazzante. Oggi, dove un tempo si producevano le Vallelunga e le Pantera, ci sono degli stabilimenti abbandonati, ancora pieni di carrozzerie e modelli mai nati.

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