Il ritorno dell’AIDS, quell’untore silenzioso che pensavamo di aver sconfitto

Ogni giorno, in Italia, 11 persone scoprono di essere sieropositive. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità le nuove diagnosi di infezione da Hiv sono 4 mila l’anno. Siamo il secondo Paese in Europa per incidenza di Aids, dopo il Portogallo. Nel passaggio dall’infezione alla malattia ci sono ancora drammi nascosti come quello di un uomo e una donna, residenti ad Anzio e a Civitavecchia, entrambi sieropositivi. Barricati in casa, si fanno identificare con un numero. Neanche chi li assiste a domicilio conosce il loro nome.

Ogni volta che l’équipe della Caritas va a prendere le loro medicine in farmacia usa un codice fornito dall’istituto Spallanzani di Roma. Perché queste due persone vogliono restare fantasmi. «I pazienti ci chiedono che la nostra macchina non sia riconoscibile e di non far indossare alle suore abiti religiosi» racconta al centro Caritas di via Casilina Massimo Pasquo, responsabile delle terapie a domicilio per malati gravi di Aids. Accanto a lui siede Mario Guerra, una vita a contatto di un male dimenticato che condanna ancora all’isolamento: «Le famiglie sono impreparate, li chiudono in una stanza e chiedono se per disinfettare gli ambienti serva la varecchina».

Nella semplificazione mediatica il ritorno dell’«untore» ha riaperto uno squarcio di luce su una malattia che per molti è confinata nell’immaginario degli Anni Ottanta ma che invece è ancora attualissima. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità la percentuale di infezione in Europa non è molto inferiore a quella di trenta anni fa. «Dal 2005 le nuove diagnosi sono più che raddoppiate in molti Paesi Ue, segno che la risposta al virus non è stata efficace nell’ultimo decennio» ammette Andrea Ammon, direttore del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc).

Cosa è mancato? Le campagne di comunicazione e di prevenzione sono scomparse. Ma il problema sarebbe ancor più a monte. In Italia, in particolare, le strategie di contrasto all’Aids hanno una falla alla radice: i numeri. Se si osservano i diagrammi delle nuove diagnosi si nota una stabilizzazione sospetta dal 2010 che fa dire a tutti, associazioni dei malati e autorità sanitarie, che i 4 mila casi annui sono «sottostimati». Le diagnosi registrano contagi che possono risalire fino a 15 anni prima, per la lunga incubazione dell’Hiv. Diverso è il discorso sulle «nuove infezioni», cioè chi ha preso il virus di recente, che permetterebbe un’analisi più precisa del fenomeno: qui però c’è una stima che, secondo l’Istituto superiore di sanità, si avvicina al numero delle diagnosi per il fatto che questo è rimasto costante negli anni.

Carenza di dati certi

Da tempo la Lega italiana per la lotta all’Aids (Lila) ha posto la questione della carenza di dati, prima al Comitato tecnico del ministero della Salute, poi all’Iss, infine al Capo dello Stato Sergio Mattarella, con una lettera inviata lo scorso dicembre. «Innanzitutto non si sa quanti siano i test effettuati in Italia – spiega Massimo Oldrini, presidente Lila -. L’Ecdc ci chiede che venga resa nota la base sulla quale vengono calcolati i 4 mila casi annui. Perché l’Italia non la comunica?».

Abbiamo girato la domanda al direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Iss Gianni Rezza e a Maria Grazia Pompa, direttrice della Prevenzione sanitaria al ministero della Salute. Una risposta chiara non arriva. Vengono riconosciute le difficoltà di trasmissione dalla periferia (ospedali, Asl) al centro (l’Iss) mentre Pompa parla di «incongruenza» in quanto molti potrebbero ripetere più volte il test. «Ma senza numeri certi non si possono mettere in campo azioni concrete ed efficaci – continua Oldrini -. Manca pure una cabina di regia istituzionale».

Pronto il piano sanitario

Dal ministero finalmente è arrivata una risposta che però dà anche la dimensione della nuova emergenza: è attivo il primo piano nazionale Aids che farà il tagliando di tutta una serie di misure arrugginite dagli anni, puntando a migliorare il flusso di informazioni, a monitorare i finanziamenti alle Regioni, che intanto dirottano i fondi per l’Hiv su altre voci, a incoraggiare l’accesso ai test in forma gratuita e anonima. E soprattutto ad assicurare il cosiddetto «trattamento preventivo» che mette in sicurezza chi è infettato e si pone l’obiettivo di azzerare i contagi.

È una corsa contro il tempo: diagnosticare il prima possibile l’infezione significa rendere più efficace la cura della persona ammalata, diminuire la sua carica virale e ridurre le possibilità di trasmissione. Proprio quello che non è successo a Marco, 46 anni, tecnico di reti informatiche: «La mia fidanzata aveva l’Hiv ma non lo sapeva, e ciò le ha impedito di essere curata. La sua carica infettiva, così, è rimasta elevata e mi ha contagiato». Prevenzione e trattamento permetterebbero di abbattere anche la spesa dello Stato appesantita dal costo altissimo dei sette farmaci antiretrovirali, fra i trenta più cari per la sanità pubblica. Anche perché ogni diagnosi salva una vita ma comporta in media 40 anni di terapie. In Italia si calcolano poco meno di 130 mila sieropositivi, cui va aggiunto circa un 20% di «inconsapevoli» che non sanno di avere il virus. E il 60% delle diagnosi avviene con malattia in stato avanzato. Tradotto, circolano persone infette che possono trasmettere l’Hiv senza saperlo, accrescendo il numero dei contagiati. «Il fatto che siamo fermi sempre a 4 mila diagnosi l’anno è preoccupante» concorda Rezza.

Calata l’attenzione per l’Aids, l’effetto è quello di un progressivo oblio che crea lacune nella comunicazione. Sopravvivono solo pregiudizi: l’Aids ancora oggi è una malattia ricondotta a quelle che venivano chiamate «categorie a rischio»: gay e drogati. La realtà invece è questa: dal 1985 al 2014 la proporzione dei tossicodipendenti per ago è passata dal 76,2% al 3,8%, mentre l’84,1% delle nuove diagnosi è attribuibile a rapporti sessuali senza preservativo: 43,2% etero e 40,9% Msm (rapporti omosessuali maschili). E’ il sesso quindi, di gran lunga, il principale veicolo di trasmissione del virus tra persone lontane da mitologie trasgressive. 25-29 anni la fascia più colpita nell’ultimo biennio: i costumi tornano disinibiti anche per effetto delle nuove droghe sintetiche e l’Hiv si conferma una malattia metropolitana, diffusa soprattutto a Roma, Milano e in Emilia.

Boom tra gli immigrati

Ovviamente la società è cambiata e un fattore che non può essere sottovalutato è l’incidenza dell’immigrazione, soprattutto dall’Africa: in Italia il 27% degli Hiv positivi è straniero, quasi 1 su 3. In generale, il fatto che la percezione del rischio sia crollata dopo la metà degli Anni Novanta ha portato di nuovo a minori cautele nei comportamenti sessuali. Lo dimostra l’aumento di casi di gonorrea e sifilide, considerati dagli esperti indicatori indiretti per la sieropositività. Purtroppo la disinformazione non risparmia neanche i camici bianchi, come ci dice Laura Rancilio del comitato ministeriale, in prima linea a Milano: «Ci sono medici convinti che l’Aids sia ancora la malattia di trans, gay, prostitute e tossici. E molte volte si vergognano di prescrivere il test a pazienti che hanno comportamenti socialmente accettabili».

Vanessa è un avvocato, di Roma, 33 anni, figlia di due medici che non sanno nulla della malattia della figlia: nel 2013 ha contratto l’Hiv con un rapporto non protetto: «Il ginecologo mi fece domande su di me e sul mio partner, chiese se ci drogavamo, e quando gli dissi che ero un avvocato mi guardò stupito quasi a dirmi “Una professionista come lei?”». Ma i medici sono impreparati anche di fronte a casi più esposti visto che il 70% dei tossici non viene sottoposto al test-Hiv.

L’incognita dei test

Il piano nazionale Aids dovrà riportare sotto controllo la situazione. E la grande sfida della sanità pubblica parte proprio dai test: se più persone lo facessero la catena infettiva si interromperebbe. Invece più di un italiano su 3 (il 37%) non lo ha mai fatto. Spesso la causa è da ricercarsi nelle difficoltà di accesso o nelle mancate garanzie su anonimato e gratuità dei test, requisiti previsti dalla legge 135 del 1990. Ci sono zone di Italia, anche nella ricca Lombardia, dove si paga il ticket: per questo motivo il ministero ha affidato alla Rancilio un progetto per uniformare l’accesso gratuito.

Chi va allo Spallanzani invece non paga e può restare anonimo se lo vuole. Deve chiedere della «Stanza 13», l’ambulatorio che si trova al piano terra di un reparto con un lungo corridoio sempre affollato. Le stanze dei test vanno dalla 16 alla 18, ma si usa il numero 13 per una scaramanzia condivisa dai medici con un loro storico paziente. Qui lavora la squadra di Vincenzo Puro, Gabriella De Carli e Nicoletta Orchi, che hanno impressi negli occhi trent’anni di volti, terrorizzati quando l’Aids era un’epidemia, spaesati oggi quando scoprono che l’Hiv è ancora una minaccia. Ci sono giovanissimi come Martina e Claudia, 24 anni, che hanno trovato sesso non protetto in chat e sono corse allo Spallanzani pentite ma sollevate alla notizia che sarebbe rimasto tutto anonimo: «Abbiamo scoperto questo centro cliccando su Google. Avevamo paura di andare dal nostro medico». Per lo stesso motivo a Roma arriva tanta gente dal Sud, dove l’acceso ai test è più difficile e prevale la paura di essere scoperti.

La discriminazione

L’Hiv è ancora una lettera scarlatta cucita addosso ai malati. «Ho visto buttare carte di cioccolatini toccate da persone infette» racconta Pompa. Secondo uno studio dell’Università di Bologna il 32% delle persone con Hiv è stato vittima di episodi discriminatori. La vergogna fa il resto: il 40% non lo rivela ai familiari; il 74% non lo dice a lavoro, ma a inquietare è che il 5% lo nasconde al proprio partner. Per venire incontro a queste precauzioni test rapidi salivari vengono sperimentati anche da unità mobili in zone di prostituzione, mentre trova totale opposizione da parte del ministero la vendita in farmacia, come avviene in Francia.

La perdita di memoria generazionale aggrava la situazione. Le autorità sanitarie e le associazioni chiedono di far ripartire le campagne informative, adattandole ai social network e centrandole di più sull’uso del preservativo. Certo non aiuta che al ministero della Salute il budget per la comunicazione sia appena di 80 mila euro e che nelle scuole siano stati abbandonati i progetti di educazione sessuale. Servirebbero ad abbattere antichi pregiudizi e a convincere gli italiani che il virus incombe su chiunque. Gli ammalati vengono ancora trattati da appestati, la Caritas soffre l’assenza di volontari per assistere chi ha l’Aids. In diverse parti d’Italia non ci sono strutture per l’accoglienza e dove ci sono, sono sovraffollate. Come a Villa Glori, a Roma, gestita da Massimo Raimondi, dove si sono conosciuti Vincenzo e Alessia. Lui in cura nella casa famiglia, lei assistente sociale. Entrambi sieropositivi. Si sono sposati, sono andati a vivere fuori e hanno avuto un figlio. «Poi, Vincenzo si è aggravato – racconta Raimondi – e ha chiesto di venire a morire qui, perché altroché se di Aids non si muore ancora. L’ultima sera ha chiamato il suo bambino e ha trovato la forza di giocare con lui».

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