Il sistema Pixar: l’ideologia californiana e l’immaginario americano in un libro di Christian Uva

Che cos’è “Il sistema Pixar”? Il titolo del volume di Christian Uva edito da “il Mulino” (2017), “Premio Limina” della Consulta Universitaria del Cinema per il miglior libro italiano di studi sul cinema, si richiama all’esigenza di considerare i Pixar Animation Studios “molto di più di una semplice società di produzione di cinema d’animazione computerizzato”, come scrive l’autore nella sua introduzione. Gli artefici di film come “Gli incredibili”, “Ratatouille”, “Inside Out” e “Coco”, si sono infatti guadagnati lo status di vero marchio creativo e industriale.

Professore associato al Dams dell’Università Roma Tre, Christian Uva è autore molti saggi e volumi. Tra gli altri, ha curato “Ennio De Concini. Storie di un italiano” (Edizioni di Bianco e Nero, 2017), “Italian Political Cinema. Public Life, Imaginary, and Identity in Contemporary Italian Film” (con Giancarlo Lombardi, Peter Lang, 2016), “L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta” (Mimesis, 2015) e “Strane storie. Il cinema e i misteri d’Italia” (Rubbettino, 2011), oltre a scrivere “Sergio Leone. Il cinema come favola politica” (Ente dello Spettacolo, 2013).

Indagando ora sul “sistema Pixar”, Uva affronta “uno degli orizzonti maggiormente indicativi delle anime e degli umori che contraddistinguono la cultura americana contemporanea”. Il progetto culturale della Pixar, dunque, “risente dell’urgenza (…) di partecipare attivamente a un processo di rifondazione dell’immaginario americano inteso quale risposta all’ansia progressiva e generalizzata determinata da quelle che da più parti vengono paventate come le forze disgreganti della globalizzazione.”

Con chiarezza, intelligenza analitica e scrupolosità scientifica, il libro evidenzia “la straordinaria capacità mitopoietica della società di Lasseter & Co.” di recuperare nostalgicamente il passato e di proiettarlo nel presente-futuro mirando a “neutralizzare ogni possibile preoccupazione rivolta verso il cambiamento, l’innovazione e il progresso.” Uva si sofferma, nei tre capitoli – dai titoli significativi “Una storia americana”, “Estetica, tecnologia, ideologia”, “Mito, memoria, identità” – sulla riconfigurazione “sul piano dell’immaginario di massa” di “un nuovo senso dell’identità nazionale americana”.

Una riconfigurazione, quella operata dalla Pixar, la quale ha proceduto all’unificazione con un marchio come la Disney nel 2006, tesa a sfruttare “il potere della globalizzazione per puntare (…) su un’audience diversificata non solo in termini generazionali, ma anche etnici, culturali.” Da qui, osserva Uva, la fusione, ormai da più di vent’anni, delle posizioni nazionaliste conservatrici e di quelle radicali-postnazionali “in un nuovo tipo di nazionalismo dell’era globale”.

Magari lo spettatore meno avveduto, quando assisterà alla visione di “Cars”, “Toy Story”, “Alla ricerca di Nemo”, “Monsters & Co.” o “Up”, non terrà conto di molteplici fattori ma, in realtà, la recente animazione presenta una complessità storica, estetica e politica che l’autore del libro esamina nelle sue sfumature e nelle sue connessioni con il presente e con l’immaginario a stelle e strisce.

Nel primo capitolo, viene preso in esame il composito DNA della Pixar, originatosi dall’unione di un figlio di Disneyland (John Lasseter), di un apostolo della «Californian ideology» (Steve Jobs), di un hippy della West Coast (Alvy Ray Smith) e di un mormone cresciuto a Salt Lake City (Edwin «Ed» Catmull). In particolare, risulta interessante l’osservazione delle affinità tra l’Apple di Steve Jobs e l’ideologia dello studio californiano, secondo una “complessa e articolata rete di saperi, professionalità, tecnologie e applicativi strettamente interconnessi.”

La combinazione di creatività e tecnologia domina uno scenario che contempera tradizione e novità, la controcultura, gli ideali politici e le dinamiche economiche di un nuovo capitalismo. Il tutto in forme ibride e ambigue, ben sottolineate dall’autore, come vera e propria cifra interpretativa della contemporaneità. Uva si sofferma sull’apporto di John Lasseter (il regista di “Toy Story” e “Cars”), sull’idea dell’assemblaggio (dal cinema e la moda al cibo e la musica) e della fusione creativa, che si afferma negli anni Novanta, e sul fotorealismo e l’innovazione tecnologica. Nell’analisi, si mettono in risalto l’alchimia tra elementi innovativi e familiari in “Toy Story” (1995), comprese le suggestioni freudiane del perturbante in “Toy Story 3 – La grande fuga” (2010), gli archetipi familiari nel celebre “Gli incredibili” (2004), il prevalere degli umani in “Up” (2009), per poi scandagliare le caratteristiche di “Monsters & Co.” (2001), “Ratatouille” (2007), “WALL•E” (2008), “Ribelle – The Brave” (2012), “Il viaggio di Arlo” (2015) e “Inside Out” (2015).

L’impegno interpretativo, rigorosissimo sia sul piano della valutazione tecnica sia degli elementi culturali e ideologici insiti nel progetto Pixar, si concentra su alcuni elementi chiave, come la contrapposizione fra l’aspetto fantasioso dei personaggi e gli sfondi realistici o il “sex appeal dell’inorganico”. Il percorso critico continua nell’esplorazione del mito americano fra tradizione e modernità, combinando le idee liberali di Thomas Jefferson, l’anarchismo hippy, il liberalismo economico e il determinismo tecnologico.

Nostalgia e modernità, qui, non sono in contrapposizione, ricostituendo, osserva Uva, “un legame forte e chiaro col passato che venga proiettato con determinazione verso il futuro al fine di riconfigurare un nuovo senso di identità nazionale.”

Riflettendo sui tanti elementi simbolici e psicoanalitici, l’autore studia con cura l’identità statunitense rielaborata dal mondo Pixar, con la svolta di “Ribelle” e la problematicità dei caratteri maschili, come in “Toy Story 3”. Di rilievo pure le conclusioni, dominate da un interrogativo quanto mai attuale: “Quale Pixar nell’era Trump?”. Dalla linea edipica che caratterizza buona parte della produzione, da “Toy Story” e “Il viaggio di Arlo”, al cortometraggio “Borrowed Time” (2016, realizzato da due autori del circuito Pixar ma non dalla stessa casa di produzione) e al realismo estremo dell’incidente di Saetta McQueen in “Cars 3”, non mancano i segnali di una maggiore attenzione agli aspetti problematici dell’esistenza.

Non va neppure dimenticata la novità estetica e tematica del sorprendente “Coco” (2017), nel nome di quella “ossessione identitaria che (…) attraversa in lungo e largo il sistema Pixar” e di una dimensione multiculturale. Dimensione che ora, al tempo della retorica anti-immigrazione di Trump con l’idea di un muro al confine con il Messico, assume una connotazione politica specifica. Non a caso così conclude Christian Uva: “Qualsiasi sarà nel prossimo futuro la fisionomia assunta dall’America, è molto probabile insomma che la Pixar, ovverosia una tra le sue industrie creative più capaci di cartografarne il paesaggio interiore ed esteriore, sarà ancora in grado di coglierla, raccontarla e interpretarla nelle sue consuete, forse ancor più acuite, contraddizioni.”

Marco Olivieri
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Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017), curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni” e ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak» e «Doppiozero». Critico cinematografico e teatrale, si occupa di Uffici Stampa, Cultura, Politica, Società e Terzo Settore.

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