Dietro al successo di molti professionisti, imprenditori, diventati personaggi o punti di riferimento nel proprio settore, vi è, sempre più spesso, una strategia ben precisa. E’ il personal branding. Perché un brand non è solo quello che identifica un’azienda o un prodotto. Ne abbiamo parlato con uno dei principali esponenti di questo settore del marketing: Gianluca Lo Stimolo.
“Il personal branding è il marketing di sé stessi;”, spiega Lo Stimolo, “per poter realizzare un brand personale la cosa importante è creare una forte associazione tra la persona e una competenza rilevante. Chi vuol fare di sé stesso un brand deve scegliere un argomento per cui vuole essere ricordato. Non è semplice, perché spesso si perde di vista lo scopo.
L’argomento scelto però spesso coincide con una competenza. Questo conferisce riconoscibilità al personaggio in quel determinato settore. Per questo il personal brand è spesso proprio l’ideatore di un metodo, di un sistema.
Nel mio caso, ad esempio, faccio marketing da sempre ma essendo specializzato in questo ambito, parlo sempre di personal branding”.
Parlare di tutto non è sempre positivo perché si sposta l’attenzione, insomma. Quindi chi vuol creare un brand personale deve innanzitutto fare un lavoro su sé stesso, sui propri interessi e sulle proprie competenze e su questi elementi deve concentrare la propria attività di comunicazione personale.
“La promessa al mercato deve essere chiara e precisa”, continua Lo Stimolo, “bisogna scegliere un pubblico privilegiato nella nostra comunicazione e a quello, specialmente, ci si deve rivolgere. Questo non significa trascurare gli altri pubblici ma concentrarsi particolarmente su quello al quale la nostra “unique value proposition” può dare risposte precise e soluzione a problemi specifici”.
Argomento e pubblico. Ecco dunque due elementi della costruzione del brand, anche di quello personale.
“Se la promessa è coerente con le competenze, questo diventa di garanzia al raggiungimento del risultato. Da questo deriva l’acquisizione della credibilità, che è evidenza del saper fare”.
Quello che è un altro elemento fondamentale del personal branding è l’autorevolezza.
“E’ importantissimo e dovrebbe crescere nel tempo. Dico sempre che l’autorevolezza si eredita. Viene data dalle persone, dai professionisti, dai brand, dagli strumenti ai quali ci affianchiamo”, continua Lo Stimolo, “se sono un consulente di un grande marchio dell’informatica, ad esempio, questo mi conferisce autorevolezza. La stampa dà autorevolezza, scrivere un libro, magari con un importante casa editrice, dà autorevolezza. Poi c’è la terzietà. Quando riesco a posizionarmi sul mercato al di fuori della “lizza commerciale” grazie ad una mia caratteristica promessa di mercato, questo mi pone in una posizione privilegiata e di assoluta visibilità. Può accadere, sempre per spiegarlo con un esempio, a chi organizza il primo evento nazionale di un dato settore”.
La professionalità, in ogni campo, è dunque la base fondante di un personal brand. Non basta la visibilità se non è sorretta da una solida competenza che conferisce credibilità ed autorevolezza ma bisogna anche avere doti comunicative, “che non sono per forza innate”, precisa Lo Stimolo, “si può imparare a comunicare nel modo giusto”.
Oggi, quando si parla di comunicazione personale, si pensa soprattutto ai social network. Quanto servono per fare personal branding?
“Sono sicuramente lo strumento più facile e meno costoso quindi è normale che una parte dell’attività di personal branding finisca sui social.
Consiglio sicuramente di avere un profilo LinkedIn, che è una delle pagine che vengono indicizzate meglio su Google per nome e cognome ed è una vetrina importante. E’ ovviamente fondamentale che sia ben fatta ed aggiornata. Non è obbligatorio avere profili su tutti i social anzi, in alcuni casi, non averne è una scelta strategica. In generale, è bene usarli ma senza pensare che l’autorevolezza dipenda dal numero di followers. Tant’è che oggi sta esplodendo il fenomeno dei micro-influencer che hanno una caratterizzazione ben precisa e capacità di influenzare un pubblico ben definito, anche se più ristretto”.
Quali altre attività servono per fare personal branding?
“Ci sono tanti strumenti. Un sito web personale può servire ma dipende anche dal mestiere. Funziona molto il content marketing, quindi creare contenuti, blog, post, libri, podcast, white paper ma attenzione, il contenuto non deve essere auto-referenziale, bisogna far parlare le proprie competenze e far parlare di sè. Poi ci sono l’aspetto, il look, che pure caratterizza la persona o il personaggio che si riconosce per il suo stile, per i suoi outfit, per la gestualità. Questa è la parte più complessa”.
Chi è stato il Suo primo cliente? Lei stesso?
“No. Cerco di non comunicare troppo me stesso. Il mio lavoro è dare visibilità ai miei clienti. Il primo invece è stato Roberto Re. Ero molto giovane quando ho iniziato ad occuparmi di marketing per la sua società di training. Quando lui si separò dai suoi soci decidemmo di comunicare molto di più lui stesso. Misi in atto tutte le strategie e tutti gli strumenti di comunicazione di cui potevo disporre. Stavo facendo, senza saperlo, personal branding. Parliamo di oltre 20 anni fa e si parlava di personal branding solo in maniera molto superficiale. Nel frattempo avevo acquisito esperienza e conoscenza tali da decidere di estrapolarne un protocollo e così nel 2014 è nata la mia agenzia: Stand Out”.
Chi dovrebbe fare personal branding? E’ un’attività alla portata di tutti?
“Sì, anche se è maggiormente indicata per alcuni profili, come imprenditori o professionisti. Anche per chi non ha ancora un lavoro e lo sta cercando fare personal branding può essere utile. La differenza la fa la possibilità di spesa.
Il primo step è specializzarsi. Si puo’ iniziare mentre si studia. L’occasione può essere la scelta della tesi: piuttosto che fare una tesi compilativa, si può scegliere di lavorare ad una tesi sperimentale, su qualcosa su cui si è ancora scritto poco, e diventarne degli specialisti.
Lo stesso vale per chi cerca un lavoro: dovrebbe concentrarsi su alcune aree. Un mio amico mi sottopose il cv di sua figlia affinchè la aiutassi a trovare un lavoro. Era un curriculum anonimo, come tanti. Le chiesi di parlarmi di cosa aveva fatto e di cosa le piaceva fare. Come la maggior parte delle ragazze della sua età, le sarebbe piaciuto lavorare nel mondo della moda ed emerse che aveva realizzato una sfilata in 3D. Allora modificammo il curriculum, inserendo quell’esperienza subito sotto il suo nome e definendola come esperta in sfilate 3D. Trovò lavoro dopo tre giorni perché avevamo dato evidenza ad una specializzazione che era ancora poco presente sul mercato del lavoro. Certo, non bisogna mentire, il rischio di essere dei millantatori è dietro l’angolo ma bisogna riuscire a mettere in risalto le proprie peculiarità. Crearsi una nicchia di mercato ed essere il primo nome che viene in mente quando si pensa a quell’ambito. L’esempio che faccio più spesso è quello di Sgarbi. Quando si parla di critica d’arte in Italia si pensa immediatamente a lui anche se non è certo il solo critico d’arte d’Italia”.
Soprattutto, fare personal branding è un processo complesso e che si svolge nel tempo.
“E’ una scelta per la vita, in quanto è un insieme di attività che ha un inizio ma non una fine”, commenta Lo Stimolo, “ed è quello che rimane di te quando non ci sarai più. E’ un’attività molto profonda dal punto di vista filosofico. Per me è una missione. Credo che ogni persona abbia un talento specifico e che farlo conoscere al mondo non sia solo un diritto ma anche un dovere perché c’è qualcuno nel mondo che ha bisogno proprio di quella competenza. Per questo esistono bravi consulenti che posso aiutare le persone a far emergere quel talento e a comunicarlo nel migliore dei modi”.
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