Il vero valore della protesta sul clima (Greta a parte)

Mentre qui ci si accapiglia sulle treccine di Greta (treccine che nel frattempo hanno conquistato persino la pubblicità dei gestori telefonici, segno di una forza mediatica indiscutibile) nel mondo decine di milioni di persone, in prevalenza giovani, scendono in piazza per chiedere a chi può di mettere riparo ai guasti ambientali.

Sono tutti coscienti della complessità del problema? Hanno soluzioni da offrire? Hanno contezza degli impatti economici, sociali, politici del cambiamento climatico e del problema ambientale in genere?Certamente no.

Molti lo fanno per moda, molti per un indistinto sentimento di protesta (a quell’età è il minimo sindacale), molti perché si fa casino in compagnia, molti perché si conosce un sacco di gente, molti perché si salta un giorno di scuola. E c’è sicuramente più di qualcuno che ha studiato, s’è informato e sa di cosa parla. Saranno pochi, ma ci sono.

E allora? Ai miei tempi si faceva sciopero per Suez, poi per il Vietnam, poi per la solidarietà con le lotte operaie, poi ancora per il Cile di Allende, poi infine contro il terrorismo, e via così.

Eravamo tutti coscienti? Manco per niente. Di discorsi politici davvero sensati poche tracce.

Però, checché se ne dica, il Sessantotto ha lo stesso cambiato il mondo: ha cambiato il rapporto dei cittadini con le istituzioni, degli studenti con la scuola, ha lanciato i movimenti delle donne, dei diritti civili, dei diritti del lavoro e tante altre cose che tutti conosciamo e apprezziamo.

Ed è successo perché quei movimenti, anche se confusi, frazionati ed indistinti, segnalavano la svolta di un’epoca, rivelavano un malessere, un’esigenza di cambiamento, che era realissima e che non mancò di portare i suoi frutti, tanti molto positivi, e qualcuno anche molto negativo.

Non c’erano le treccine di Greta, ma le barbe, i capelli lunghi, gli eskimi, poi arrivarono anche le P38, purtroppo, e furono guai seri.

Ma qualcosa si mosse e continuò a muoversi fino a quando molti tabù, molti santuari, molti santoni non furono caduti.

Anche quella, non era un’esercitazione, ma era un’evoluzione, necessaria, salvifica, positiva.

Quante rivendicazioni di allora erano fasulle? Quante assurde, anche buffe (ricordate il sei – o il diciotto – politico?).

Ciò non toglie qualcuno, che doveva capire l’esigenza del cambiamento, la capì e agì di conseguenza, o almeno ci provò. Parlo di Moro e Berlinguer, tanto per fare un esempio. O Helmut Schmidt, o Olof Palme, o François Mitterrand, per dirne altri.

Per tornare al punto, è improprio pretendere dai milioni di manifestanti qualcosa di più che la voglia di scendere in piazza. Qualcuno pensa che siano loro, Greta in testa, ad offrire soluzioni, a proporre piani operativi, a prendere impegni inderogabili? Scherziamo?

È evidente che il problema è complesso ed investe rapporti sociali a livello globale: stili di vita, geopolitica, rapporti di forza, macro e microeconomia. Roba da far tremare i polsi agli esperti, ai responsabili, ed anche ai colpevoli (che poi in fondo in fondo siamo anche tutti noi, che questo modello di vita consideriamo inattaccabile).

Allora teniamoci cara questa protesta e cerchiamo di farla funzionare come detonatore (pacifico) per una nuova stagione di uso più cosciente e responsabile delle risorse, sia quelle naturali che quelle che ci costruiamo noi stessi. Non facciamo tragedie, non facciamoci prendere né dal panico né dalla rabbia per i possibili cambiamenti che dovremo accettare. Anche un problema così complesso non è irrisolvibile, purché lo si voglia risolvere e ci si dedichino le risorse necessarie: ed è compito della politica.

Smettiamola di accapigliarci sui sintomi del problema e cominciamo (continuiamo, direi meglio) ad affrontarne le cause, con tutta la scienza e coscienza di cui siamo capaci. Che non sono poca cosa.

Certamente nei prossimi anni, qualche decennio, dovremo modificare alcune nostre abitudini, qualche schema mentale, accettare di vivere con più attenzione, ma facciamolo senza astio.

Abbiamo un male curabile. Curiamolo. Serve qualche medicina? Prendiamola. Serve un regime di vita ambientalmente più sano? Adottiamolo.

Nel passato abbiamo spesso stravolto la nostra vita con le guerre, con le rivoluzioni, con la tecnologia più o meno amica. Ora abbiamo bisogno di qualcos’altro e non dobbiamo perdere tempo a rinfacciarci colpe che tanto sono attribuibili a tutti, pressoché indistintamente.

Cerchiamo di convincerci che occorre fare questo sforzo, che è anche una formidabile opportunità di sviluppo, che ne usciremo molto migliorati, che daremo alle future generazioni più possibilità di benessere.

Altrimenti accontentiamoci di maledire Greta che con faccia impertinente ci copre tutti di insulti. Lei ha sedici anni, quegli altri molti di più, e possono decidere, in un senso o nell‘altro.

Noi discutiamo e discutiamo fino allo sfinimento, ma nel frattempo l’anidride carbonica nell’atmosfera non cala, anzi aumenta. A buon intenditor, poche parole.

Giuseppe Turani
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Giornalista economico e Direttore di "Uomini & Business". E' stato vice direttore de L'Espresso e di Affari e Finanza, supplemento economico de La Repubblica. Dal 1990 al 1992 è editorialista del Corriere della Sera, del mensile Capital e dei settimanali L'Europeo e Il Mondo. Ha scritto 32 libri.

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