Napoli, rione Traiano. Un ragazzino quindicenne sta andando scuola. Lungo la strada compra un quotidiano. Apre la prima pagina e legge una notizia. Si parla di affiliati al clan camorrista dei Di Lauro, uno dei più potenti della città. Tra le foto c’è quella di suo padre, bancario in pensione.
Scorre l’articolo e scopre che quel papà che riteneva un uomo onesto, un lavoratore, in realtà si occupava di spaccio di stupefacenti per conto del clan. Quel ragazzo rimane impietrito. La camorra è entrata nella sua vita. È la seconda volta, quella che gli fa prendere definitivamente consapevolezza.
Era già accaduto poco tempo prima, quando appena adolescente si vedeva riportare lo scooter che gli avevano rubato, con tanto di scuse e reverenze. “Non dirlo a tua cugina, ti prego”, gli dissero. Sua cugina è Cristina Pinto, meglio conosciuta come Nikita, ai tempi una delle donne di camorra più potenti, poi arrestata e rimasta in carcere per oltre 20 anni. La Pinto si è oggi dissociata dalla camorra, anche se a ciò non ha mai fatto seguito una collaborazione piena con la giustizia.
Quel ragazzo di 15 anni, cugino di Nikita e figlio di un affiliato dei Di Lauro, oggi di anni ne ha 33, vive a Bologna e fa l’autore. Si chiama Alessandro Gallo, scrive romanzi, è un autore e attore teatrale attivamente impegnato in tutta Italia in laboratori sulla legalità e contro la mafia.
La sua è una storia che ricorda quella di altri che hanno scelto di stare dalla giusta parte, di dire no alle mafie, di farlo andando in direzione opposta a quella di un familiare, di un parente. Alessandro è un uomo dal sorriso gentile e dallo sguardo fiero, ama il teatro e ne ha fatto la sua ragione di vita, ma anche il suo strumento di fuga da una realtà che gli stava stretta, soprattutto dal momento in cui ha saputo che la camorra era entrata anche nel suo nucleo familiare.
Perché una cosa è una cugina, un’altra cosa è un padre. “Quando venni a sapere di mio papà – afferma Gallo ad Outsider News – io facevo già teatro. Fu mia madre a spingermi a continuare. Il teatro mi diede la scusa perfetta, perché avevo bisogno di una città che mi permettesse di formarmi il più possibile a livello teatrale. Quella città fu Bologna. Io non volevo fare l’attore, volevo studiare teatro, mettermi in biblioteca di notte a sfogliare e leggere libri, a imparare, a fare quello che non avevo mai fatto alle scuole medie e alle superiori. Ho scoperto tardi il piacere dello studio e Bologna per me fu perfetta. Ma soprattutto fu la scusa per andare via da Napoli”.
Hai preso una decisione coraggiosa. Spesso scelte simili comportano dei rischi, delle conseguenze. Hai mai avuto problemi per questa tua scelta?
Quando sono arrivato a Bologna per studiare teatro, per circa 4-5 anni nessuno ha saputo della mia storia. Solamente attraverso una serie di laboratori teatrali per l’infanzia sul tema della legalità e dell’antimafia, questa storia piano piano è riemersa, perché ho pensato che potesse essere un elemento di discussione e dibattito con i ragazzi. Una volta che è emersa non l’ho potuta più nascondere e alla fine ha accompagnato anche il mio lavoro di autore. Ho avuto la fortuna di far entrare la mia storia nella mia vita professionale. Il mio gesto, pertanto, non è stato mai visto come un atto di ribellione o attacco, ma è sempre stato tradotto come un gesto di riflessione. Un’intenzione di parlarne, di dividere umanamente le situazioni. Come se a mio padre e a mia cugina, che oggi lavorano e non fanno più parte della camorra, io avessi ribadito chi sono io e chi erano e sono stati loro. Un lavoro quasi pedagogico. Sono modalità diverse rispetto a quelle, ad esempio, di quel ragazzo che, dopo il ferimento della piccola Noemi, ha urlato il suo no in piazza. Ogni storia ha sempre tanti fattori che vanno presi in considerazione. Io sono stato più fortunato”.
Quel ragazzo che, scosso dalla vicenda di Noemi, urlò pubblicamente il suo no alla camorra è Antonio Piccirillo, figlio del boss Rosario Piccirillo. Quanto possono essere utili una storia come la tua o un atto come quello di Antonio, per spingere molti ragazzi che vivono ancora in territori difficili e dentro famiglie di camorra a ribellarsi?
Esperienze come le nostre ti fanno vedere di persona che esiste un’altra realtà, la volontà da parte di chi vive quei territori di non rimanere invischiato in quel mondo. Nel mio caso, io ho fatto tutto con estrema lentezza e riflessione: ho scoperto chi era mio padre, ho lasciato Napoli, ho iniziato a fare teatro, ho nascosto la mia storia per qualche anno, poi ho deciso di renderla protagonista all’interno del mio lavoro. In me non c’è stata rabbia, quindi è normale che io, una volta che ho iniziato a raccontarla, avevo già in mano uno strumento importante per potermi difendere da qualsiasi attacco. Ci ho messo 12 anni. Nel caso di Antonio Piccirillo, invece, c’è un’informazione che viene sempre omessa: quel ragazzo ha avuto questo momento di rabbia, un gesto istintivo, improvviso. La mia domanda è: dopo quel suo gesto bellissimo, questo ragazzo è stato seguito? Dove sta? Che fa? Qualcuno gli ha chiesto se gli serve aiuto? Perché tutto ciò che è ribellione istintiva, opposizione, ha sempre bisogno di qualcuno che offra una sponda a quella ribellione.
Tu oggi giri le scuole per parlare di legalità ai ragazzi. Rispetto alla narrazione attuale del fenomeno mafioso, c’è qualcosa che ti colpisce particolarmente o che non ti piace?
Lo sto vivendo proprio adesso. Nel mio ultimo romanzo, “Era tuo padre” (Rizzoli, 2019), racconto una storia familiare segnata dalla camorra, nella quale emergono alcune questioni legate all’eredità paterna. Parlo di mafia al nord, qualcosa di cui mi occupo da tempo. Nel nord e nel centro-nord vi sono centinaia di famiglie che si sono trasferite dal sud. Centinaia di figli di queste famiglie oggi vivono qui e vengono considerati puliti, sono incensurati, hanno aziende. Mi sono accorto che nessuno si è posto la domanda di come hanno costruito la loro professione, ma soprattutto il loro impero economico. Manca moltissimo questo tipo di narrazione. Eppure la risposta sarebbe semplice, poiché è facile comprendere che molti di questi ragazzi sono passati dall’essere ragazzini delle paranze all’essere imprenditori al nord. La cosa che mi colpisce poi è che hanno l’accento del nord e ormai non hanno più nulla delle origini, vivono il sud da turisti. Il nord ormai è il loro terreno, il loro habitat. Ciò fa intendere molte cose anche sulla permeabilità di questi territori.
A tuo avviso, cosa manca oggi nella lotta alle mafie, sia al nord che nel resto d’Italia?
Credo che dovremmo superare il concetto di mafia stessa. Qualche giorno fa raccontavo di un fatto accaduto a Napoli relativamente alle schede taroccate di Sky. In molti rioni, gruppi di ragazzi, che avevano dei server negli scantinati, gestivano la bellezza di 40-50 mila utenti a 9 euro al mese. Questi ragazzi non hanno un legame diretto con la camorra. Sono ingegneri, nerd. Eppure chiedevano alla camorra di poter condividere l’utenza, perché sapevano che coinvolgendo i clan avrebbero innescato un circolo virtuoso che li avrebbe portati ad acquisire nuovi utenti e quindi a guadagnare di più. Quando fai notare a una persona qualsiasi, magari istruita e che paga 9 euro al mese perché è contro Sky o le pay tv, che in realtà così sta alimentando un sistema camorrista, e questa persona ti risponde che non è vero, che la camorra è un’altra cosa, capisci che culturalmente siamo arretrati. Non capiamo che ci sono gesti che non sono altro che gesti di quotidiana mafiosità. L’ho vissuto proprio con la vicenda della pay tv. E potrei farti altri esempi. Insomma, credo che la lotta alla mafie parta da noi, dal contrasto alla illegalità spicciola che produce vantaggi per i clan. È una questione principalmente culturale rispetto alla quale si dovrebbe fare molto di più.
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