Negli anni ’80 cercarono di farla chiudere per via giudiziaria, in quella che passò alla storia come la “Guerra dei Puffi”. Negli anni ’90, riprendendo uno slogan coniato da Fellini (“non si interrompe un’emozione”) certi soloni provarono a tagliarle le gambe economicamente, attraverso un referendum per vietare la pubblicità poi respinto dagli elettori. Ancora lo scorso decennio, alcuni moralizzatori si accanivano descrivendola come un postribolo, mentre Beppe Grillo, nelle piazze dei VaffaDay, le riservava anatemi da far impallidire il famoso invito di Franca Ciampi a spegnere “la TV deficiente”.
Per quasi trent’anni insomma, l’inesorabile declino del Paese, più che al debito pubblico o alle mancate riforme, è stato attribuito al palinsesto Mediaset, ritenuto responsabile di un gigantesco rincoglionimento di massa a sua volta responsabile del “regime” berlusconiano.
Il fatto che durante questo “regime” la sinistra avesse vinto le elezioni due volte non veniva ovviamente preso in considerazione, e nemmeno il fatto che Mediaset avesse un tempo avuto, tra i suoi uomini chiave, gente come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo ed ex candidato alla Regione Lombardia con il centrosinistra, o Carlo Freccero, al comando di Rai Due in quota Cinque Stelle, entrambi direttori di rete in quella che una volta chiamavamo Fininvest.
Ma al di là delle persone, a far capire quanto fossero immeritate quelle cicliche valanghe di veleno erano soprattutto i contenuti. Il Drive-in e poi Striscia la Notizia, Mai Dire Gol e la Gialappa’s Band, il pomeriggio di Italia Uno, Ciro il figlio di Target, sono innumerevoli i programmi Mediaset rimasti immortali nella memoria di chi li ha vissuti in diretta e che, meglio di tutta la cosiddetta “cultura alta”, hanno saputo rappresentare lo spirito di un’epoca.
“Per quasi trent’anni l’inesorabile declino del Paese è stato attribuito al palinsesto Mediaset, ritenuto responsabile di un gigantesco rincoglionimento di massa a sua volta responsabile del “regime” berlusconiano. Il fatto che durante questo “regime” la sinistra avesse vinto le elezioni due volte non veniva ovviamente preso in considerazione”.
Il Tg5 di Mentana non era uno strumento di propaganda, ma una boccata di ossigeno in un Paese in cui il servizio pubblico era solito sostituire in montaggio i fischi con gli applausi per far fare bella figura al potente di turno. Le telecronache di Sandro Piccinini, il Pressing di Raimondo Vianello, fino al puro dadaismo del pendolino di Maurizio Mosca hanno rivoluzionato il racconto del calcio in TV, ostaggio di tromboni che facevano sembrare vivace lo studio del sanscrito.
Certo, soprattutto dal ‘94 in poi ci sono anche stati dazi da pagare alla proprietà scesa in politica, così come programmi di cui nessuno sente la mancanza, ma ci sono state anche perle d’avanguardia come le “Lezioni d’Amore” di Giuliano Ferrara o “L’Araba Fenice” di Antonio Ricci con Moana Pozzi: roba che oggi, visto il bigottismo in cui siamo precipitati, nessuno si sognerebbe nemmeno di proporre.
Nel DNA di Mediaset c’era, insomma, una costante voglia di sperimentare, di anticipare la società italiana nell’ambizioso e sacrilego tentativo di interpretarla e rappresentarla culturalmente.
Peccato che da anni le cose siano cambiate, in modo diametralmente opposto. I palinsesti Mediaset, salvo rare eccezioni costituite da alcuni programmi storici che resistono, sono interamente basati su reality capaci di suscitare imbarazzo per interposta persona, costruiti sull’unica idea di avvicinare la pagliuzza alla fiamma sperando prenda fuoco. Una rissa, un paio di corna, una bestemmia: e giù di “polemica” su cui costruire il palinsesto della settimana successiva, ovviamente sempre “chiedendo scusa”, come se si trattasse di un episodio inaspettato e non di una strategia premeditata dall’inizio (emblematico il caso di Riccardo Fogli-Fabrizio Corona).
“Peccato che da anni le cose siano cambiate, in modo diametralmente opposto. I palinsesti Mediaset, salvo rare eccezioni costituite da alcuni programmi storici che resistono, sono interamente basati su reality capaci di suscitare imbarazzo per interposta persona”.
Se un tempo, pur muovendosi in un orizzonte nazionalpopolare, lo spettatore a cui l’azienda si rivolgeva era una persona mediamente colta, oggi il rispetto per le fasce più alte del pubblico – e quindi, in teoria, più interessanti da un punto di vista pubblicitario – è venuto completamente a mancare, e l’intera programmazione sembra rivolgersi esclusivamente a una platea di anziani, psicolabili e analfabeti funzionali.
Mentre un tempo Canale 5, Italia Uno e Rete 4 erano una sorta di specchio del Paese, oggi se si guarda Mediaset si ha l’impressione di entrare in una dimensione parallela: basti pensare che l’unico tema che ha tenuto banco dalle parti di Cologno Monzese nelle ultime settimane è stato il penoso teatrino sul finto matrimonio di Pamela Prati smascherato da Dagospia.
Questo totale sbracamento viene di solito spiegato in due modi, entrambi completamente falsi. Da un lato, si sostiene che è la TV stessa ad essere in crisi, e che la perdita di rilevanza dell’azienda sia quindi fisiologica. Non è vero: basta vedere il buzz che circonda ogni anno il Festival di Sanremo o il successo della fiction Rai, per capire come la TV generalista farà anche meno ascolti in assoluto, ma occupa sempre un posto centrale nel sistema mediatico. Piuttosto, se negli anni di “Gomorra” uno propone “La Dottoressa Giò”, dovrebbe guardare alle dinamiche di casa propria, invece che cianciare di crisi del sistema.
Dall’altro, si dice che è una questione di budget, che mancano i soldi, che “i colossi” come Google e Amazon stritolano la concorrenza eccetera. Una teoria che ha retto per anni, e che però è crollata quando si è scoperto che Mediaset ha speso 20 milioni di euro (ma qualcuno dice 60) per mandare in onda quella follia senile denominata “Adrian”. Con questo budget si poteva creare una serie con un livello produttivo simile a quelle di Netflix, o investire sulle idee, restituendo un minimo di importanza agli autori. Invece, con la scelta di puntare una cifra folle su un prodotto folle, si è rivelato una volta per tutte come il problema non sia la mancanza di soldi, ma la siderale distanza dalla realtà di chi decide le scelte editoriali.
Si potrebbe considerare l’intera questione come un fatto di poco conto, stiamo pur sempre parlando di TV, e invece si tratta di una questione ben più importante di quello che sembra.
“Passato Berlusconi, nessuno fa un plissé davanti a una programmazione che è la perfetta istantanea di un Paese a un passo dal baratro, penultimo in Europa per numero di laureati e ultimo per crescita”.
Per effetto del patologico ritardo tecnologico (secondo l’Istat, un italiano su quattro considera internet “inutile e non interessante”), la raccolta pubblicitaria italiana – una torta da 3 miliardi di euro – è ancora fortemente indirizzata verso la TV. E all’interno di questo mercato, nel 2018, Mediaset aveva una quota pari al 57%.
Perché questo accada, se cioè una tale posizione dominante sia merito dell’azienda o il risultato delle leggi che regolano il mercato delle telecomunicazioni approvate durante gli anni del governo Berlusconi (e mai messe in discussione da nessuno) è questione che qui non interessa; quello che interessa, invece, è rilevare che, se il grado di progresso e di sviluppo di una comunità è determinato dalla cultura che quella comunità produce, l’Italia è oggi paralizzata in un sistema che ha come fiore all’occhiello i fischi del pubblico in studio di “Ciao Darwin” davanti alle chiappe di Madre Natura.
Sono i soldi della pubblicità che rendono possibile lo sviluppo e la produzione di storie e contenuti a cui è affidato il compito decisivo di diffondere nuove idee, interrogare le coscienze, insinuare dubbi, soprattutto in un’epoca di cambiamenti epocali come questa. Ma se l’azienda che convoglia la maggior parte di queste risorse rinuncia a una qualunque funzione culturale, il prezzo non lo pagano certo gli azionisti o i dirigenti, ma il Paese come comunità. Per questo, la parabola di Mediaset è una storia italiana al tempo stesso paradossale e simbolica.
Paradossale, perché veniva fatta a pezzi durante anni gloriosi, e invece oggi che quelle critiche sarebbero importanti, nessuno ne parla.
Simbolica, perché mostra come da noi tutto sia distorto, manipolato e subordinato all’interesse politico del momento. Quando c’era Berlusconi, Mediaset era il Grande Satana capace di corrompere i telespettatori-pecorelle (anche se ci hanno lavorato, per periodi più o meno lunghi, quasi tutti i migliori autori di sinistra del Paese). Passato Berlusconi, nessuno fa un plissé davanti a una programmazione che è la perfetta istantanea di un Paese a un passo dal baratro, penultimo in Europa per numero di laureati e ultimo per crescita.
Gianfranco D’Angelo, in un vecchio sketch del Drive-in, diceva “o si fa l’Italia Uno o si muore”: in un certo senso, aveva ragione lui.
Be the first to comment