Sergio Marchionne non c’è più. Al suo posto è stato nominato alla guida del Gruppo FCA l’inglese Michael Manley che avrà il gravoso compito di dare continuità alla strategia aziendale. Si ha come la sensazione che debba portare a compimento il destino della Fiat. E manca ancora qualcosa: una grande alleanza internazionale, cosa che la casa torinese cerca da sempre.
E’ una storia lunga. Giovanni Agnelli, morto quasi quindici anni fa, è stato definito come l’ultimo uomo del Rinascimento. E probabilmente la definizione è esatta. Personaggio di vasti interessi e, soprattutto, di curiosità infinite, più americano che italiano, negli Stati Uniti ha sempre avuto casa e vi si muoveva meglio che in Italia. I suoi amici dicono che pensava in inglese e che poi traduceva in italiano.
Alla Fiat, ricevuta in eredità dal nonno (che è anche quello che lo ha allevato, a causa della prematura scomparsa del padre), teneva moltissimo. In tanti anni ricordo solo un momento di debolezza. Quando agli inizi degli anni Novanta l’azienda stava attraversando un momento molto difficile, mi disse: “Il matrimonio tra la Fiat e Torino è durato cento anni. Cento anni mi sembrano molti per un matrimonio”. Come a dire: stiamo facendo quello che possiamo per salvare la Fiat, ma anche se non dovessimo riuscirci è stata comunque una bella storia.
Uomo di mondo e cosmopolita, ha sempre avuto la certezza che la Fiat non avrebbe potuto stare da sola per l’eternità. E infatti proprio sotto la sua gestione sono stati fatti molti tentativi (tutti falliti) di sposare la Fiat con qualcuno: con la Simca, con la Citroen, con la Ford e, infine, con la General Motors.
E i matrimoni sono falliti tutti per una ragione molto semplice: quello Fiat è sempre stato un mondo molto chiuso, molto torinese, molto autosufficiente, esattamente il contrario dell’Avvocato, che invece era un inquieto e mai a suo agio in nessun posto.
Quando scompare, nel gennaio del 2003, le redini passano al fratello Umberto. Tutti erano convinti che Umberto fosse un sostenitore dell’uscita della Fiat dall’auto. Umberto, invece, sorprende tutti spiegando che il destino della Fiat sono proprio le macchine e avvia l’uscita della casa torinese da tutto il resto per concentrarsi sulle quattro ruote.
Umberto, comunque, non riuscirà a realizzare la sua strategia. Poco più di un anno dopo l’Avvocato scomparirà anche lui. E il comando di tutto passerà nelle mani di Sergio Marchionne.
Non un uomo del Rinascimento, ma un uomo del mondo globalizzato. Italo-canadese, residente in Svizzera, dove ha lavorato a lungo, gran lavoratore, e molto introdotto nel mondo americano, realizza i due colpi che salvano la Fiat (che quando lui arriva era quasi fallita e di fatto venduta agli americani della General Motors), ma che faranno della casa torinese anche un’altra cosa rispetto ai cento anni precedenti.
La Fiat, quando Marchionne si mette al lavoro, va malissimo e i vertici della General Motors non hanno alcuna intenzione di comprarsela. Marchionne si legge bene il contratto e per “liberare” gli americani dal loro impegno a rilevare l’azienda torinese si fa dare una montagna di soldi (un miliardo e mezzo di dollari), con i quali sistema i conti.
Poi si mette a tagliare il tagliabile, a ristrutturare, e a mettere un po’ di ordine.
Quando arriva la Grande Crisi realizza il suo secondo colpo: l’affare Chrysler. La terza casa automobilistica americana passa di fatto sotto il controllo della Fiat. L’aspetto curioso è che tanto Fiat quanto Chrysler erano di fatto due aziende fallite, ma Marchionne riesce a convincere Barack Obama che potrà salvare entrambe. E l’operazione parte. Oggi la Fiat è come un animale a due teste: la Chrysler va bene e fa un sacco di soldi, la Fiat, che agli inizi era un disastro (il mercato italiano si era ridotto moltissimo, quasi del 50 per cento rispetto agli anni d’oro), adesso ha indovinato molti modelli e va bene.
L’obiettivo di Marchionne è di fare del complesso Fiat-Chrysler una sola entità, e di fatto è già così.
E qui sta il grande cambiamento. La Fiat non è più l’azienda che puntava soprattutto a fornire un’utilitaria al geometra Rossi e ai ragionieri Bianchi, magari con l’aiuto dello Stato. Non è più, insomma, un affare domestico, italiano, nel quale tutti possono mettere bocca. Ormai è una realtà multinazionale: le sue battaglie le vincerà (se le vincerà) non a Torino o a Milano, ma sul mercato globale, pieno di concorrenti molto più agguerriti e solidi della Fiat. E più grandi. La vecchia Fiat, quella che abbiamo conosciuto fin da piccoli, è morta. Al suo posto c’è una multinazionale. Una multinazionale che farà le macchine dove potrà e dove si venderanno. Nessuno, oggi, può prevedere quello che succederà.
Ma si sa che i torinesi e Marchionne hanno un obiettivo in testa: unire la Fiat a qualche gigante internazionale dell’auto. General Motors sarebbe la preferita (ma non vogliono loro, si sono già bruciati una volta). Rimangono Volkswagen o i giapponesi della Toyota.
Marchionne ha dimostrato con l’affare Chrysler di avere molto talento per questi accordi. Adesso tocca al suo successore dimostrare di essere all’altezza.
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