Ci sono dei posti di lavoro che la tecnologia crea, come quello della foto – la centralinista del telefono in voga nei primi anni del secolo scorso – che si è immediatamente spento non appena la stessa tecnologia ha inventato metodi di commutazione automatici.
I commutatori comunque dovevano essere costruiti, installati e manutenuti e questo avrebbe generato immediatamente nuove opportunità lavorative e nessun disavanzo in totale per il mercato del lavoro, a patto che questa trasformazione fosse andata ad impattare nello stesso bacino di utenza.
Partendo da questa foto, viene in mente che in realtà la stessa tecnologia può creare nuove opportunità lavorative proprio mentre ne toglie delle altre.
Il punto non è tanto capire se il saldo tra quelle tolte e quelle create sia positivo o meno, quanto invece, assodato che questo è il trend (sostituzione spinta del lavoro dell’uomo con l’automazione e l’AI), potrebbe essere interessante capire come fare ad aumentare la possibilità per i lavoratori di essere velocemente riadattabili a nuove professionalità, di essere disposti ad imparare continuamente e ad accettare l’ipotesi di cambiare molte volte lavori durante la propria vita lavorativa e, cosa ancora più sfidante, quali potrebbero essere gli strumenti istituzionali, sociali e culturali, che possano agevolare e cavalcare positivamente questa inevitabile trasformazione continua che la tecnologia ci impone a ritmi sempre maggiori.
Strumenti nuovi per nuove situazioni lavorative
Forse la criticità attuale potrebbe davvero essere tutta qui, nelle rigidità contrattuali e negli strumenti di tassazione, gestione e controllo di nuovi rapporti di lavoro e contratti che invece possano favorire questo andamento e questo bisogno di flessibilità, senza intaccare la continuità vitale di remunerazione utile per pianificare un acquisto di un bene importate, una nascita e la crescita di un figlio; insomma, azioni pluriennali di vita vera per le quali una continuità e una costanza di entrate risulta essere condizione necessaria e sufficiente per poter procedere e se a questi atti vitali continua a volersi attribuire una valore non solo individuale ma dell’intera società.
Non è un caso che il nuovo governo, composto da chi ha anche vissuto personalmente i disagi della precarietà e del disallineamento tra pratiche lavorative e contratti, abbia annunziato di voler introdurre sistemi universali di accesso al reddito (di cittadinanza o di inclusione) e cancellare rigidità fiscali (studi di settore, redditometro e spesometro, pagamento per la dichiarazione dei redditi ai CAF in base al numero dei CUD presentati) volte a paragonare un presente incerto e frammentato, con un passato solido e strutturato ora non più paragonabili, anche se ancora non è chiaro con cosa ciò dovrebbe essere sostituito e quali debbano essere le coperture.
Da quanto racconta Tomaso Freddi (fondatore della “Lavoropiù spa”, agenzia per il lavoro, di cui è attualmente presidente) sembra che le azione dei governi, finora, siano state fatte con interventi legislativi, bonus incentivanti e sconti fiscali, che continuavano a voler condizionare lo spontaneo evolversi dei rapporti di lavoro che, invece, secondo le tendenze attuali, andrebbero naturalmente a cambiarsi e che dovrebbero maggiormente consentire di sfruttare risorse, disponibili anche a poco costo, che hanno loro stesse interessi ad evitare un eccessivo impegno di carattere continuativo nel lavoro, per vari motivi (giovani, studenti, disoccupati o chi per priorità e contingenze famigliari decide di voler momentaneamente intraprendere una esperienza di lavoro totalizzante come le nuove tendenze richiedono e che male si potrebbe conciliare con un bilanciamento familiare o con particolari esigenze di “tempo libero”).
Queste azioni sarebbero quindi un tentativo di rallentare la diffusione di flessibilità per privilegiare il lavoro dipendente a tempo indeterminato, anche se contemporaneamente risultano frenate dal timore di provocare perdita di competitività alle aziende e quindi paradossalmente, in totale, una perdita di occupazione. Mentre, invece, le tendenze da tempo in atto sono destinate a svilupparsi con maggiore intensità e quindi il problema che si presenta è soprattutto di carattere economico e sociale ed è profondamente connesso con l’espansione delle nuove tecnologie digitali, ma non solo.
Alla perdita di posti di lavoro, dovuta all’espandersi delle tecnologie elettroniche e digitali, che spesso purtroppo sono realizzate fuori dal nostro paese e che quindi dobbiamo importare -racconta Tomaso – che si aggiunge anche il fatto che l’andamento dell’occupazione in Italia dipende, secondo lui, da molti fattori collegati alla realtà sociale e culturale, la cui concomitanza rappresenta per il nostro paese un prevedibile e inevitabile declino se non si interviene in qualche modo. Questi fattori – dice – sono: l’andamento demografico e l’invecchiamento della popolazione, la polarizzazione dei redditi e la formazione di sacche di povertà, la caduta della domanda aggregata, la scarsa propensione ad iniziative imprenditoriali, la preferenza verso attività ripetitive, continuative perché a basso rischio, il welfare e la inevitabile necessità di sussidiare socialmente i disoccupati e/o di occuparli in lavori socialmente utili.
Previsioni e trend
Le tecnologie digitali produrranno certamente nuova occupazione, ma non in misura da riequilibrare i posti di lavoro perduti, mentre le attività nuove presenteranno caratteristiche peculiari difficili da reperire: formazione lunga e continua, competenze professionali ottenibili solo con l’esperienza, qualità naturali difficili da individuare e comunque attualmente non sufficientemente apprezzate, attività caratterizzate da complesse problematiche tecniche, difficili da comprendere anche da chi deve selezionare i profili per l’impiego.
Tali competenze per progettare, implementare e manutenere macchine ed impianti automatici, algoritmi, procedure e modelli di Intelligenza Artificiale dovranno essere unite con la necessità di una dedizione, di un impegno continuo e, in certi momenti, senza limiti di orario e risulteranno produrre mestieri impegnativi e spesso non compatibili con esigenze personali diverse, non sempre forieri quindi di grandi soddisfazioni in ambiti diversi.
I nuovi mestieri bisognerà in un certo senso amarli e, almeno nel periodo che li si effettua, che non può essere per una intera vita lavorativa, che vengano ben remunerati, in misura superiore alle attività tradizionali.
Il processo di trasformazione del lavoro, causato da questa quarta rivoluzione tecnologica, si prospetta nulla abbia a che vedere con il passaggio dal lavoro da agricolo alla catena di montaggio di una precedente rivoluzione tecnologica, pur avendo diverse similitudini.
Le trasformazioni di cui sopra, per quanto rapide, si svolgeranno su un arco di tempo ampio; la crisi demografica e le riduzioni dell’orario di lavoro nelle attività tradizionali superstiti contribuiranno a conservare un equilibrio sul mercato del lavoro.
Purtroppo però i fatti hanno dimostrato che lo sviluppo tecnologico digitale produce redditi fortemente sperequati nella distribuzione della ricchezza. Gli istituti internazionali di ricerca sono concordi nel preveder che la nuova realtà costringerà i governi ad intervenire con azioni di redistribuzione di reddito molto decise, mediante sussidi, welfare e lavori socialmente utili. Nel contempo, non si dovranno trascurare coloro che continuando nei lavori produttivi renderanno fattibile la redistribuzione. Dovranno essere elargiti privilegi e incentivi economici a favore di coloro che continueranno a produrre ricchezza (imprenditori e lavoratori-sviluppatori).
Da queste brevi considerazioni, appare evidente la dimensione del problema economico che sarà necessario fin d’ora affrontare e, quindi, una volta chiarito che l’economia di mercato non è in grado in tempi accettabili di aggiustare spontaneamente gli squilibri creati dai cambiamenti tecnologici, in che modo si dovrà intervenire.
Prima ancora che per motivi di solidarietà umana, dal punto di vista macroeconomico sarà fondamentale mantenere il livello attuale della domanda aggregata, in modo da sostenere il PIL in una situazione nella quale la disoccupazione risulterà in forte incremento.
A parità di volume delle esportazioni, che significa comunque rimanere competitivi e quindi accedere alle nuove tecnologie senza esitazioni, la domanda interna di beni e servizi dovrà rimanere inalterata, e questo nonostante la diminuzione demografica in atto e, di conseguenza, dovrà mantenere inalterato il volume reddituale dei consumatori.
In pratica, chi perde lavoro dovrà poter usufruire di un sussidio fino a che non avrà ritrovato un altro reddito. In che modo farglielo pervenire?
Le alternative sono due: o mantenendo il lavoratore a carico dell’azienda dove ha perso il lavoro, oppure direttamente dalla pubblica amministrazione, attraverso un finanziamento con nuove imposte, e perciò sempre a carico della medesima azienda.
Sembra, in proposito, che la prima soluzione presenti meno dispersioni. In sostanza, si tratta di ripartire tra azienda e maestranze, tra capitale e lavoro, il frutto indesiderato dell’innovazione tecnologica che ha provocato la perdita di lavoro; un processo che, con modalità e tempi diversi e mantenendo l’occupazione, il capitalismo ha sempre provveduto ad effettuare.
Se la soluzione contabile economica sembra essere almeno teoricamente soddisfacente, nel senso che il progetto di innovazione trova compensazione nella remunerazione del capitale e nel miglioramento delle condizioni dei lavoratori, si apre sul piano sociale un conflitto con prospettive difficilmente superabili. Già oggi si stanno moltiplicando nel mondo iniziative di “welfare tecnologico”, di UBI (universal basic income), ma con reazioni dell’opinione pubblica nella maggior parte negative.
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