Capita spesso, purtroppo, che la maternità della dipendente sia fonte di malumori datoriali che non di rado possono sfociare in comportamenti vendicativi o meglio discriminatori tra cui spicca l’immotivato trasferimento a decine di chilometri di distanza dal posto di lavoro cui la lavoratrice era destinata in precedenza senza che ve ne siano effettive motivazioni di organizzazione aziendale.
A tale riguardo un procedimento rientrante in questa casistica è stato deciso dalla Cassazione e da giuslavorista ritengo meriti l’attenzione dei lettori precisando che ogni situazione apparentemente analoga va esaminata nel particolare con l’ausilio di un legale preparato.
La vicenda riguardava una lavoratrice che, dopo il rigetto della domanda in primo grado, successivamente aveva ottenuto dalla Corte di Appello di Torino la declaratoria della nullità del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del licenziamento disposti a suo carico dal datore e la conseguente reintegra nel posto di lavoro occupato con il risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto a decorrere dalla data del recesso.
Secondo il Collegio piemontese le decisioni datoriali potevano inquadrarsi in un disegno discriminatorio nei confronti di una lavoratrice madre in quanto costei, dopo soli tre giorni dall’inoperatività del divieto di cui all’art. 56 del D.Lgs. 151/2001, la normativa di tutela e sostegno della maternità e paternità, e al termine di un’astensione dal lavoro di un anno e quattro mesi, era stata trasferita ad un altro punto vendita distante oltre 150 km dalla sua sede precedente, la sede di appartenenza non appariva necessitare di una riduzione di personale dal momento che, dopo l’inizio dell’assenza della lavoratrice erano stati assunti due lavoratori.
L’unità cui era stata destinata aveva ben dodici addetti, non erano state prospettate ragioni dirimenti, in base alle quali si dovesse provvedere ad un trasferimento da una sede che poi era stata tempestivamente reintegrata per cui tali elementi, nella valutazione della Corte, erano “idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti o comportamenti discriminatori”, secondo le previsioni dell’art. 40 del D.Lgs. 198/2006, il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, con la conseguenza che sarebbe spettato al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione.
La Corte di Appello inoltre evidenziava come il rifiuto della lavoratrice colpita da discriminazione di riprendere l’attività lavorativa, da cui erano derivate le sanzioni disciplinari e il licenziamento, era giustificato ai sensi dell’art. 1460 del codice civile che prevede l’eccezione di inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive, sulla base dei reciproci inadempimenti e la loro proporzionalità.
Il datore ricorreva in Cassazione, la lavoratrice resisteva con un controricorso. Il giudice di legittimità all’esito del procedimento con la recentissima sentenza n. 15435 del 26 luglio 2016, confermava la decisione della Corte d’Appello di Torino, che aveva annullato il licenziamento disponendo la reintegra.
Osservano i giudici della sezione lavoro della Cassazione, respingendo tutti i motivi del ricorso datoriale, che la previsione che gli elementi di fatto, idonei a fondare la presunzione di esistenza di atti o comportamenti discriminatori, attribuendo al datore di lavoro, in caso di indizi precisi e concordanti, l’onere della prova della situazione contraria di insussistenza della discriminazione, possano essere tratti “anche” da dati di carattere statistico, è diretta a corroborare lo sforzo difensivo del lavoratore e a facilitare l’emersione della condotta illecita, di cui egli sia stato vittima, “in un’ottica di affiancamento agli elementi fattuali connotanti la fattispecie”.
Giustamente la sentenza di secondo grado, impugnata dal datore di lavoro, aveva ritenuto che quest’ultimo dovesse provare l’insussistenza della discriminazione, tale conclusione è stata raggiunta dal giudice sulla base della motivata ricognizione di elementi di fatto idonei a fondare, con i requisiti di legge, l’accertamento della sua esistenza, tale prova non era stata fornita dal ricorrente.
Il datore di lavoro è stato condannato alla rifusione delle spese legali e sanzionato a favore dell’Erario con il pagamento di altra somma pari al contributo unificato già versato.
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