Il prezzo del petrolio Brent a ottobre oscilla sopra gli 80 dollari, massimo non raggiunto da fine 2014, quando era da poco iniziato il crollo che avrebbe portato al minimo di 27 dollari nel gennaio 2016. Come quattro anni fa era stato il ritorno dell’Iran per la fine delle sanzioni ad innescare la caduta, così oggi è il loro ripristino, voluto da Trump, a spingere al rialzo.
Le esportazioni che mancheranno al mercato sono di 1,5 milioni di barili in un momento in cui la domanda raggiunge il nuovo picco a 100 milioni di barili giorno. Era maggio 2014 quando l’allora amministrazione Obama decise di togliere le sanzioni sulle vendite di petrolio dell’Iran, di cui aveva un urgente bisogno per combattere l’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria)nel Nord dell’Iraq.
La mossa non piacque ai sauditi che, sentitisi traditi dallo storico alleato americano per un accordo con il nemico iraniano, decisero di reagire inondando il mercato petrolifero internazionale. Volevano anche mettere fuori mercato la produzione da fracking USA, ma la prima ragione era quella di ostacolare il ritorno dell’Iran. Per due anni hanno aperto i rubinetti e solo nel novembre 2016, dopo un anno di mediazione della Russia, sono tornati a frenare la produzione con un accordo fra OPEC e non OPEC, di portata storica, entrato in vigore nel gennaio 2017. Il grado di rispetto di quegli impegni è stato sorprendente, grazie anche ai problemi di alcuni paesi, in particolare del Venezuela, ma soprattutto per lo sforzo, impiegato dai paesi firmatari, mai visto in precedenza.
L’accordo prevedeva un taglio di 1,7 milioni barili al giorno rispetto ai picchi estrattivi di ottobre 2016, quando in realtà è stato superiore ai 2 milioni. A maggio 2018, l’annuncio di Trump di voler di nuovo imporre le sanzioni all’Iran, effettive ad inizio novembre, aveva spinto per la prima volta i prezzi di nuovo verso gli 80 dollari. Preoccupati, anche sollecitati da Trump, i produttori il 22 giugno 2018 hanno deciso di allentare il grado di rispetto degli impegni, aumentando di fatto l’offerta di un milione di barili al giorno. La flessione dei prezzi di nuovo verso i 70 dollari è durata poco, solo su agosto e settembre, perché, con l’approssimarsi della scadenza dell’esclusione dell’Iran, ci si comincia ad accorgere che il mercato è un po’ sbilanciato e che manca capacità produttiva.
Oggi la differenza la fa la crescita dei consumi
Rispetto al 2014, quando l’Iran era fuori, la grande differenza è che oggi la domanda è superiore di quasi 8 milioni barili giorno. In questi 4 anni è stata confermata la regola di lungo termine che vede i consumi mondiali di petrolio crescere ogni anno fra 1,2 e 1,5 milioni barili giorno, un volume pari al consumo dell’Italia. Non esiste alternativa al vantaggio garantito dai carburanti liquidi derivati dal petrolio. Nessuna altra fonte riesce a contenere così tanta energia in uno spazio così ridotto, come quello di un litro di benzina. L’auto elettrica, di cui tanto si parla, di fatto rimane confinata ancora nelle visioni di lungo termine che tutti vorremmo che si avverassero. Nel frattempo, la domanda di petrolio, contrariamente agli auspici, continua ad aumentare, mentre, e qui sta il problema, l’offerta non è salita altrettanto, o meglio non si è investito sufficientemente in nuova capacità produttiva. Gli investimenti dell’industria del petrolio nella fase di produzione e ricerca, dopo il crollo dei prezzi del 2014, sono stati più che dimezzati da valori di quasi 800 miliardi di dollari a 350 nel 2015 e 2016.
Si teme la scarsità di capacità produttiva
Del resto le compagnie petrolifere non potevano fare altro sulla pressione degli analisti finanziari e della politica, che volevano i prezzi del petrolio ancora per molto tempo bassi, con alcuni che coniarono il “lower for longer”, sorpassati da altri più estremisti con il “lower for ever”, prezzi bassi per sempre. Dimenticati questi proclami, utili solo a fare i titoli dei giornali, ora si è ripreso a temere la scarsità di capacità produttiva, con quel poco che rimane tutta concentrata in Medio Oriente e, in particolare in Arabia Saudita.
La Russia, secondo esportatore mondiale dopo l’Arabia Saudita, non ha volumi aggiuntivi; ha raggiunto il massimo a 11,6 milioni barili al giorno, e nuovi incentivi alla produzione stentano ad arrivare sul mercato sia a causa dei pochi investimenti fatti in passato, sia per problemi oggettivi di trasporto dai campi interni ai porti di esportazione.
In una situazione simile si trova la produzione USA che, grazie al fracking, continua a salire e che trova difficoltà ad essere esportata per strozzatura sul sistema logistico. C’è poi l’incognita della finanza USA che ha continuato a facilitare i petrolieri senza avere nulla in cambio. Dovesse interrompersi questo circolo, che per fortuna dura da 10 anni, allora anche la produzione americana cesserebbe di salire. In altre parti del mondo la produzione è stabile o in calo. Per compensare l’ammanco iraniano occorre affidarsi solo all’Arabia Saudita che ha si ancora 1,5 milioni barili al giorno di capacità inutilizzata, ma che non è proprio della qualità necessaria al mercato. A Riad, l’ambizioso e stravagante tentativo di modernizzazione del trentatreenne principe ereditario Mohamed Bin Salman si sta lentamente accartocciando. Da sempre i sauditi lavorano per la stabilità del mercato, perché loro sono i primi a trarne vantaggio, visto le riserve che hanno. Tuttavia, a volte, la politica del ginepraio mediorientale agisce contro e l’instabilità torna a prevalere; questa volta, dopo 4 anni di prezzi bassi, potrebbe essere di nuovo al rialzo.
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