Ricominciamo dalle domande con le quali abbiamo chiuso il precedente articolo. Possono sembrare domande pretestuoso, ma lo sono. Potremmo definirle provocatorie perché c’è sempre da verificare la nostra volontà e la nostra ambizione per “aggredire” dei nuovi mercati.
Come abbiamo visto in precedenza l’export può generare valore, ma non possiamo immaginare che sia un investimento a risposta istantanea. Se puntiamo a costruire un mercato di lungo termine, dobbiamo partire da un solido business plan che risponda ad alcune domande essenziali.
Prima di tutto l’investimento. Quanto intendo investire in questa avventura? Contando non solo le cifre direttamente utilizzate per sviluppare l’approccio commerciale, ma anche quelle necessarie per sostenere l’aumento di lavoro nella casa madre.
Come ci ha ricordato l’imprenditore Biagio Savaré, titolare della omonima impresa chimica, che da anni è presente con una filiale produttiva negli Stati Uniti “anche se non è semplice quantificarlo, c’è sempre un impatto in termini di lavoro e costi sulla struttura della sede principale quando si attiva una attività di export o internazionalizzazione: bisogna seguire il progetto e questo sottrae energie, tempi e risorse alla sede e produce conseguentemente una riduzione dei margini. Poi si rimbalza notevolmente, è ovvio”.
Altro elemento chiave da considerare è il tempo da concedersi e gli indicatori da studiare per verificare di essere sulla corretta rotta. Un errore grave è quello di perdere la pazienza, peggio: spaventarsi, quando i risultati non arrivano subito. E’ normale: bisogna seminare per raccogliere e tanto più un business è complesso tanto maggiore sarà il tempo di semina e coltivazione.
Oggi si vende soprattutto attraverso la fiducia: come posso apparire credibile in un paese che non mi conosce se non attraverso la costruzione di una reputazione? E questo porta via tempo.
Ciò non vuol dire non monitorare il percorso per assicurarsi di raggiungere traguardi intermedi. Basta solo non immaginare che questi traguardi siano sempre collegabili a fatturato e margini: ad esempio potremmo misurarli in termini di contatti sviluppati, di avanzamento del processo di vendita, di recensioni raccolte, di offerte presentate e così via.
Tutti gli imprenditori che hanno avuto successo nell’export sono concordi nell’affermare che è necessario comprendere la cultura locale. E, come spiega l’ing. Calafà titolare della Microstudio di Besnate, “credere di conoscere il mondo perché siamo turisti frequenti è un grosso errore”. Questo ci permette di suggerire che si prenda in considerazione la possibilità di affidarsi a consulenti che conoscano come affrontare mercati esteri: che si tratti delle camere di commercio, dell’ICE, di banche come Intesa San Paolo, di consulenti privati, poco importa. Dipenderà da chi ritenete credibile e di successo. Un incontro con uno di loro vi aiuterà a chiarire le idee e a impostare un piano d’azione corretto per prendere le decisioni più corrette.
Per chiudere questa seconda puntata lascio di nuovo la parola all’ing. Calafà, che ha condotto la sua azienda verso una quota di export del 60% non solo in Europa, ma anche nel Nord America: “l’export impone l’export impone continuità, pazienza e costanza. Solo così arrivano i risultati. In particolare tutto ciò è vero perché per esperienza ritengo sia impossibile costruire un successo senza creare relazioni umane solide: è necessario investire sui rapporti con le persone”.
Continuo a ringraziare
Paolo
Apprezzo ancora questa seconda puntata perchè si rafforza l’idea che per intercettare la domanda estera necesita possedere una forza ed una robustezza rilevante, non solo in termini di business ma, soprattutto, mentale ovvero la capacità di capire, intuire ed analizzare le dinamiche che dominano l’internazionalizzazione.Quanto analizzato porta a considerare che per entrare in un mercato estero necessita conoscerlo bene, pena il rischio di insuccessi e distruzione di risorse.