La storia del colonialismo italiano soffre di un curioso fenomeno di rimozione. Visto come un evento a sé stante, la fase coloniale viene sistematicamente ignorata dai mass media e trattata con gran superficialità in scuole e università.
Ancora oggi, in un momento storico di forte impegno in azioni di cooperazione con Paesi in via di sviluppo, solo pochi collegano questo fenomeno con la storia coloniale, momento in cui tale cooperazione ha le sue radici.
Per capirne il quadro generale, è giusto riassumere i tre momenti principali del colonialismo italiano, per poi passare ad osservare come esso sia stato minuziosamente “fabbricato” dagli italiani stessi.
Nella storia dello sviluppo, il colonialismo occupa un ruolo molto importante: quello di meccanismo di esportazione di un modello di civiltà – europea – attuato attraverso l’utilizzo della violenza e dell’imposizione.
La sopraffazione ci invita a pensare come il colonialismo sia anche un fenomeno del presente, un movimento non ancora concluso, che quindi deve essere fortemente inserito nella nostra storia nazionale. Infatti, come diceva Gramsci: il presente contiene tutto il passato.
l momento iniziale della storia colonialista italiana è da collocare nel 1869, anno dell’apertura del canale di Suez, che, dopo le grandi scoperte geografiche dei secoli precedenti, rappresenta un nuovo momento di comunicazione tra tutto il mondo.
Nel 1869 l’Italia pone la sua prima “bandierina” ad Assab, ad indicare l’idea di una nazione che, anche se nata da poco, vuole cercare degli spazi in qualità di potenza appena sorta. Dietro a questa mossa, c’erano però gli interessi di molti armatori e la volontà della città di Genova di espandersi come porto.
A partire dal 1896, la politica coloniale italiana si orienta verso il Mar Rosso. È in quest’anno che si arriva alla battaglia di Adua, in cui l’Italia verrà grandemente sconfitta.
L’Italia sembra ripiegare subito, decisa a non portare avanti una politica coloniale d’espansione, ma in realtà, da quel momento sul fronte interno comincia a svilupparsi una nuova politica volta a creare un’adeguata mentalità coloniale.
Iniziano a fondarsi quei principi che, pescando nel nostro immaginario collettivo precoloniale, basato soprattutto sulla letteratura, andranno a forgiare l’ideologia colonialista proposta in chiave nazionalista e, più tardi, fascista.
A diversità del 1896 quindi – quando la politica espansionista si trovava a dover fare i conti con una forte opposizione interna, incarnata da diversi strati della borghesia che non vedevano in essa alcun interesse positivo -, nel 1911, si arriva alla seconda guerra d’Africa, quella di Libia, con una opinione pubblica favorevole perché, come tramanda la stampa dell’epoca, già incarnante forti valori nazionalistici.
In realtà, il sostegno effettivo dell’opinione pubblica resta da verificare: dall’analisi di molti dati ritrovati nei registri di leva, per esempio, sappiamo che i disertori furono comunque molti.
Nel 1911 l’Italia non era tuttavia una potenza in grado di sostenere una guerra, né tantomeno una seria politica imperiale, poiché la sua storia colonialistica era molto breve rispetto a quella delle altre potenze in gioco. Ciononostante, pur di non rimanere ultima in questa corsa all’espansione, essa si imbarcò impreparata sulla nave dell’avventura imperialista.
Il primo “esperimento” venne condotto in Libia. Qui l’Italia si propone di realizzare, attraverso l’istituzione dello Statuto Libico, importanti autonomie locali e l’elezione di organismi rappresentativi; stabilisce inoltre di riconoscere, ai libici, la cittadinanza italiana. Nulla di tutto questo in realtà sarà mai attuato.
Nel 1919, l’Italia decide di non mandare i suoi soldati a combattere sul fronte europeo, ben conscia di non essere preparata né economicamente né psicologicamente per affrontare una guerra così imponente e devastante. Nello stesso anno però, la Libia lancia la prima grande controffensiva, costringendo gli italiani a ripiegare sulle città costiere.
Nel 1922, Amendola, l’allora ministro delle Colonie, decide di riconquistare gli spazi precedentemente persi in Libia. Dal 1922 fino al 1931 si svolge una feroce guerra di repressione – a tal punto violenta e sanguinaria da essere tutt’oggi prepotentemente inserita in ogni revisione storica della storia nazionale libica – che si conclude con la cattura dell’Omar Imuctal, il “Garibaldi” della resistenza libica, il quale viene processato e poi impiccato come traditore dello Stato Italiano, di cui la Libia faceva ormai parte.
L’eperienza in Somalia e in Etiopia
Il secondo importante momento da ricordare, per ricostruire la storia del colonialismo italiano, riguarda la Somalia.
In questo territorio non si svolse mai una vera e propria guerra di conquista coloniale, bensì una serie di azioni repressive che si susseguirono tra il 1992, il 1923 ed il 1925, causate dal fatto che la colonizzazione non riusciva ad innestarsi.
Il motivo di tutto questo è da ricercare nelle ribellioni che la popolazione somala metteva in atto contro i colonizzatori italiani, i quali obbligavano gli autoctoni, storicamente nomadi, a condurre una vita sedentaria fatta di lavori forzati all’interno delle grandi aziende agricole, che producevano soprattutto banane, di proprietà, appunto, degli italiani.
Terzo, ma non meno importante, evento da ricordare nella storia imperialista italiana riguarda l’Etiopia. Questo momento è in realtà prepotentemente entrato a far parte della nostra storia coloniale perché: la guerra che lì si svolse, nel 1936, venne impostata, non come una guerra coloniale, bensì come una guerra nazionale, e in quanto tale condotta da un esercito popolare inesperto, formato da più di 330.000 soldati.
Quando si parla di colonizzazione bisogna quindi pensare ad essa nella sua totalità, cioè come ad un evento di forte violenza psicologica individuale e collettiva.
Dopo aver ricordato questi tre momenti cruciali della storia imperialista italiana, è giunto il momento di fare un passo avanti nella storia, per giungere al periodo in cui iniziò a svilupparsi l’embrione di quel processo di rimozione di cui abbiamo detto soffre tale storia coloniale.
Nel 1943, con l’occupazione da parte delle forze britanniche delle colonie italiane,finì la nostra avventura imperialista. Nel 1947, un trattato di pace impose all’Italia di rinunciare a tutte le sue colonie.
Bisogna ricordare l’insistenza delle trattative del nuovo governo italiano, affinché ci venissero lasciate piccole parti delle colonie, per far sì che i nostri connazionali potessero rimanervi. Il rientro in patria per molti di loro fu terribile, vennero infatti accolti in campi di raccolta appositamente creati.
L’Italia perse anche la Somalia, in cui però ottenne di poter rimanere per circa un decennio, fino al 1960, con un mandato amministravo. Tuttavia, venuta meno l’attività propagandistica del periodo fascista, su cui si basava la persuasione dell’opinione pubblica, il colonialismo va definitivamente scemando.
La rimozione storica
Nel 1953 chiude il Ministero delle Colonie, nato nel 1912, e con esso vengono messi a tacere tutti quei saperi riguardanti la cultura coloniale – saperi organizzati per amministrare i problemi della “gestione dell’Altro” – che avrebbero permesso l’evolversi di un articolato dibattito sul periodo imperialista italiano.
Conoscere più a fondo la storia di quel periodo rimane comunque un dovere, soprattutto a fronte del fatto che lo stesso Ministero delle Colonie rappresenta un momento fondatore dell’identità degli italiani nei confronti del proprio Stato; costruzione identitaria che avvenne anche, benché in minima parte, attraverso la conoscenza dell’Altro.
Nel secondo dopoguerra, l’Italia non viene minimamente toccata dal processo di decolonizzazione che invece riguarda tutte le altre realtà imperiali. È come se l’Italia, svegliatasi da un lungo sonno, conducesse una battaglia antimperialista volgendosi alle vicende di altri paesi europei – si pensi al sostegno dato al Fronte di Liberazione Algerino – e dimenticandosi completamente della sua storia.
Assistiamo ad una profonda cesura che ha portato via con sé ogni accenno di dibattito sulla questione coloniale italiana.
Sul fronte storiografico, nel 1952, viene fondato un comitato – formato da universitari e alte personalità dell’amministrazione coloniale di allora – per la documentazione dell’operato italiano in Africa.
In questo modo, tutto ciò che riguarda la storia coloniale italiana viene radunato e messo sottochiave, bloccando ogni accesso alla vera storia, e permettendo così la creazione di una storia ad hoc.
Il mondo cattolico, che in Italia rappresentava la maggioranza della società civile, aveva utilizzato le missioni oltremare per imporre la propria cultura religiosa, per questo mantenne a lungo una posizione di silenziosa astensione nei confronti delle lotte anti-imperialiste.
Tuttavia, dopo il Concilio Vaticano II, si assiste ad una profonda svolta culturale che apre un nuovo dibattito, sul fronte sociale, su quelle ingiuste imposizioni che furono le missioni colonizzatrici.
Purtroppo, anche questo nuovo movimento ebbe scarsi risultati sulla modificazione della produzione storiografica a riguardo.
La tendenza generale fu quella di una completa rimozione del periodo imperialista vissuto dall’Italia.
Non si può parlare di revisionismo storico nel campo del colonialismo, di contro, si può insinuare la presenza di una precisa disposizione censoria a riguardo.
A fronte di questa situazione, i nuovi storici che s’interessavano all’Africa venivano indirizzati ad occuparsi della storia vista dall’interno dell’Africa, senza minimamente preoccuparsi della storia coloniale che tale continente ha vissuto e subìto.
Al tempo delle colonie, lo storico colonialista era l’unico addetto a scrivere della storia dell’Africa, ma dopo? Come riuscire a scrivere della storia di un continente in cui il tempo sociale è così diverso dal nostro?
Come scrivere una storia esatta, o quanto meno attendibile, di un mondo in cui il tempo viene erroneamente scandito secondo il modello di vita sociale dell’uomo bianco?
Le caratteristiche dell’esperienza italiana
Accanto a queste profonde considerazioni, non bisogna però dimenticare alcuni altri particolari che hanno reso l’avventura imperialista italiana un evento unico.
Essa è stata un’avventura, cioè un movimento di breve durata, se paragonato alle storie colonialiste delle altre potenze europee ed extra-europee. Anche per questo, la costruzione identitaria nazionale che ci deriva dal colonialismo è molto meno incisiva che in altri paesi.
La politica imperialista italiana si differenzia però dalle altre per aver incitato molti connazionali a trasferirsi nelle colonie.
Una delle ragioni che spinsero l’Italia verso l’impegno coloniale fu la necessità di dare un diverso senso al fenomeno migratorio: poiché molti connazionali emigravano verso i più svariati paesi del mondo, perché non persuaderli ad emigrare in nuovi territori posti sotto la bandiera italiana?
Nonostante tutto questo, le migrazioni verso altri paesi stranieri continuarono comunque, e molto spesso continuarono ad essere numericamente superiori rispetto a quelli verso i paesi colonizzati dall’Italia.
Un’altra grande polemica di allora, rivolta al colonialismo italiano, arrivava direttamente da un fronte interno mobilitato dall’idea secondo cui all’interno dell’Italia stessa ci fossero già abbastanza colonie: le terre del Mezzogiorno. Questa polemica riscosse molto successo soprattutto durante il periodo della guerra libica, poiché in concomitanza ad essa, nel sud Italia, scoppiarono sanguinose rivolte.
Conclusioni
Innanzitutto bisogna focalizzare l’attenzione su cosa è stato il colonialismo per noi italiani. In generale, è stato un fenomeno svantaggioso a causa, soprattutto, del resoconto economico in perdita che le colonie hanno lasciato; è stato un evento negativo perché psicologicamente devastante, sia a livello individuale che collettivo. Bisogna anche ricordare come esso ha potuto esistere solo in presenza di una imponente propaganda, e come, caduta l’azione propagandistica, tale evento non abbia lasciato tracce né tantomeno si sia dimostrato un’esperienza di costruzione identitaria. Il colonialismo italiano è stato una vera e propria “avventura” che non ha lasciato tracce culturali.
È importante comunque cercare di avviare un processo di “rimozione della rimozione”; compito che spetta soprattutto ai massmedia, a chi lavora nella scuola, e, più di tutti, agli storici.
Be the first to comment