È in corsa per gli Oscar e in Italia ha suscitato riflessioni e curiosità oltre i circuiti del cinema d’essai. “L’insulto” (“L’insulte”), regia del libanese Ziad Doueiri, è tra i nove titoli annunciati dall’Academy e il prossimo 23 gennaio si saprà se verrà candidato come miglior film straniero in rappresentanza del Libano.
Già vincitore della Coppa Volpi per l’interpretazione di Kamel El Bash, alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, “L’insulto” racconta in chiave universale quanto un banale diverbio possa nascondere risvolti storici, psicologici, individuali e collettivi.
L’offesa del capo cantiere Yasser all’indisponente meccanico Tony Hanna si trasforma in un caso politico che, progressivamente, sfugge a ogni controllo. Una guerra privata tra un libanese e un profugo palestinese che, in un crescendo paradossale come ogni conflitto e distruttivo come ogni scontro di civiltà, investe la questione ebraica e quella palestinese, gli arabi e i cristiani, gli odi antichi e le ferite della Storia, travolgendo gli affetti e mettendoli in pericolo, al pari di una Beirut divisa da opposte fazioni.
La forza della sceneggiatura di Doueiri e di Jöelle Touma è quella di ribaltare costantemente il punto di vista dello spettatore e di mostrare, con acume introspettivo, quanto in ogni conflittualità si annidi una radice di malessere e dolore non riconosciuta, rimossa e quindi capace di provocare ferite non rimarginabili senza un complesso processo di consapevolezza.
La regia di Doueiri, già autore di “The Attack” (2012) e accusato in patria di “collaborazionismo con il nemico israeliano”, in contrasto con lo sguardo incentrato sull’essere umano che anima il suo cinema, conferisce ritmo e spessore alle sequenze, in linea con il montaggio di Dominque Marcombe. Il merito maggiore va assegnato a una sceneggiatura ricca di dettagli e di attenzione ai nodi irrisolti dell’incontro/scontro fra individui in balìa delle loro appartenenze geografiche e culturali, in mezzo a discriminazioni e ingiustizie, stereotipi e pregiudizi.
Frutto di una coproduzione internazionale, in prevalenza franco-libanese, “L’insulto” invita a comprendere che gli stessi persecutori possono essere stati a loro volta perseguitati, nel nome di un’umanità complessa, e lo fa con uno stile che combina racconto per immagini tradizionale (nelle musiche e nel linguaggio filmico), elementi realistici (con la fotografia di Tommaso Fiorilli), incubi, segreti, momenti processuali e colpi di scena.
A volte l’evoluzione narrativa rischia di diventare più faticosa e di perdersi, ma regia e sceneggiatura mantengono quasi sempre l’equilibrio e si concentrano sulle dicotomie amico/nemico, uomo/donna (da ricordare il ruolo delle mogli dei due nemici), padre/figlia (in un conflitto generazionale che vede al centro i due avvocati contrapposti), vita/morte e guerra/pace.
Con i protagonisti Adel Karam e Kamel El Bash, gli altri interpreti, da Camille Salameh e Rita Hajek a Diamand Bou Abboud, Christine Choueiri e Talal Jurdi, donano verità e misura a una vicenda che svela quanto sfera politica e privata non possano prescindere da uno sguardo dentro di sé. Da questo punto di vista, “L’insulto” è un film psicoanalitico, efficace nel raccontare i meccanismi di proiezione. Nel volto dell’Altro, del nemico, a volte si cela un “amico” non riconosciuto, se non si sa guardare in profondità, alle radici del male.
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