Fino a qualche anno fa, sembrava quasi che a Netflix i premi non interessassero. E forse, in un certo senso, era così. Era importante esserci, farsi vedere, avere un posto speciale, ma non bisognava esagerare. La regola era: piccoli passi. Poi, con il tempo, le cose sono cambiate. Sono arrivati i primi riconoscimenti, è arrivata la prima Venezia con Beasts of no nation, e c’è stata la polemica con Cannes.
I film, per Netflix, sono diventati qualcosa su cui puntare. Non è un caso se dopo lo scontro con il festival e gli esercenti francesi abbia deciso di tardare l’uscita di Roma, di rinviarla e di spostare tutto sul Lido (non solo Roma, ma anche Orson Welles, i fratelli Coen e Sulla mia pelle). E non è nemmeno un caso se per il film di Alfonso Cuaron è stato valutato un investimento di circa 20 milioni di dollari (fonte: Indiewire) in pubblicità.
Roma non è stato uno “sbaglio”, una deviazione, una bellissima eccezione in bianco-e-nero fatta d’autorialità e di passione. Roma è stato il passo decisivo verso qualcosa di più: Netflix che diventa un produttore di primo piano per il cinema e che per questo vuole investire – e investirà tanto, secondo gli ultimi dati – anche nella produzione di film. È il nuovo. È l’alternativa. L’isola felice dove chiunque può sentirsi dire di sì, se l’idea è giusta.
Alfonso Cuaron è l’esempio perfetto: il suo film è un film in lingua originale, produttivamente difficile, ricercato e molto, molto personale. Non è un blockbuster; non è un film commerciale pensato per riempire le sale e staccare i biglietti. È un’altra cosa. Una cosa per cui, a Hollywood, c’è sempre meno spazio. E Netflix questo l’ha visto. La polemica con le sale c’entra e non c’entra. Negli Stati Uniti, s’è concluso un anno ottimo per gli incassi. Quindi il mercato più importante per la piattaforma streaming (più di 50 milioni di abbonati, circa un terzo del totale) non gli è sfavorevole, anzi. L’Italia resta un’eccezione.
Netflix vuole essere un porto franco per gli autori, vuole fare da mecenate, investire dove nessuno vuole investire; puntare su qualcosa di diverso, sulla novità, su un cinema disponibile ovunque e in qualunque momento, e non per questo meno bello di quello che si può vedere in sala. Ha detto di sì a Cuaron (che non riusciva a trovare un produttore disposto a puntare sul suo Roma). E ha detto di sì anche a Martin Scorsese e alla sua folle impresa, The Irishman. Sta spendendo milioni. E lo sta facendo con l’obiettivo di vincere.
Una parte di Hollywood è ancora scettica. Perché, si dice, quelli di Netflix non sono film veri e propri, non sono pensati per la sala, e non è giusto dare lo stesso peso e la stessa visibilità a un autore che ha lavorato per il grande schermo e a uno che, invece, sapeva che il suo film sarebbe finito in streaming. Ma i film sono film sempre. I film sono film a prescindere dalla grandezza dello schermo. Non è la tecnologia a definire il linguaggio; ma è la sua forma, il suo contenuto, la sua consistenza.
Netflix a vincere tutto quello che si può vincere: miglior film e miglior regia. È arrivata a compromessi con sé stessa, con il suo core business, e ha cominciato a distribuire i film anche in sala. In parte per venire incontro ai suoi autori. E in parte per comunicare un messaggio: io non sono il nemico; io non voglio distruggervi; io sto qui, insieme a voi, e con voi voglio lavorare. Netflix non vuole eliminare Hollywood e la sua aristocrazia, ma vuole prenderne il controllo. A colpi di Oscar, Golden Globe e premi.
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