Noi, quelli della generazione cerniera, da piccoli, dai 5 anni in su, abbiamo cominciato a scrivere usando il pennino. Il banco dove stavamo seduti per molte, troppe ore al giorno, aveva un foro dove inserire il calamaio o l’inchiostro, e la penna era una specie di stiletto appuntito, forse già di plastica, anche se non sono sicuro che la plastica esistesse già.
Difficile rendere fino in fondo le differenze tra adesso ed allora, quindi avviso gli under 30 che continueranno a leggere del forte rischio di problemi di incomunicabilità.
Con i pantaloni rigorosamente corti fino a 12-13 anni, si iniziava da subito ad affrontare il mondo con una serie di rigide regole educative, forse le uniche efficaci, dove la famiglia e la scuola si davano il cambio in una sorta di protocollo piuttosto severo, se ripenso a come il tutto era impostato. E così crescevamo in una atmosfera severa da un lato e molto ingenua dall’altro, rigorosamente etero diretta, i cui capisaldi letterari erano, in ordine cronologico, “Pinocchio”, il libro “Cuore”, e, più avanti, “I promessi Sposi”. Più in là non si andava, ma chissà, forse non era poi così sbagliato e talvolta assistevamo a qualche vero e proprio miracolo della storia umana, di cui a tutti noi rimane in qualche modo il ricordo rigorosamente in bianco e nero, come quello dello sbarco sulla Luna.
Nel frattempo l’ingenuità e la timidezza si scontravano con le regole dell’adolescenza, sempre abbastanza crudeli e spietate. Non essendoci ancora tutto questo dialogo aperto tra genitori e figli, ogni cosa, anche le prime cotte, si snodava tra patemi, timidezze e passioni rigorosamente segrete, forse fatte più di immaginazione che di esperienze reali. Ma forse anche oggi succede così. Poi, dopo i primi amori e le prime esperienze “sul campo”, cioè verso i 16-18 anni, le cose cominciavano a prendere lentamente un loro corso. Ma non per i banchi, quelli sarebbero stati gli stessi dall’asilo all’università.
Per noi, quelli della “generazione cerniera”, iniziò in Italia, proprio in quei nostri anni dell’adolescenza, una vera e propria guerra civile. Difficile credere o immaginare per gli under 35 di oggi cosa sia stata l’Italia nei dieci anni dal 1970 al 1980. Vivevamo e crescevamo nelle città spesso in stato d’assedio, tra manifestazioni e cortei di cui per noi era impossibile capire il senso, divisi da un lato tra le nostre timidezze e le nostre cotte adolescenziali e dall’altro da uno stato d’animo perennemente scosso dalle notizie giornaliere di qualche attentato, rapimento, esplosione o uccisione avvenuta da qualche parte, un periodo interminabile culminato il 2 agosto 1980, con la strage della stazione di Bologna.
Per noi questo scenario così cupo e pieno di contrasti sarebbe stato solo l’inizio di quello che anche per i successivi 30-35 anni di vita sarebbe stato poi un interminabile slalom e una metamorfosi senza sosta, anche se per fortuna non più così cupo e cruento. Sarà difficile crederlo per un ventenne di oggi, ma il computer, il telecomando, il cellulare non esistevano ancora. Si scriveva sempre a mano anche se non più con il pennino ma con la biro, ci si alzava ogni volta dalla poltrona per cambiare canale tra i due o tre disponibili, e si viveva praticamente in ogni famiglia con un solo telefono, inteso ancora come quelli col filo e col disco rotante per fare il numero.
Non è solo una sconvolgente rivoluzione sociale e tecnologica quella che abbiamo vissuto sulla nostra pelle in questi lunghi 50 anni di vita, ma un vero e proprio slalom che ha accompagnato tutta la nostra storia obbligandoci a una continua metamorfosi spesso estrema, che noi abbiamo vissuto e forse spesso subito facendo semplicemente del nostro meglio, in una corsa a perdifiato per imparare qualcosa, resettare il tutto, e tornare a imparare la nuova successiva meraviglia tecnologica che nel frattempo sostituiva la vecchia, ancora recente. Non solo un continuo cambiamento di tecnologie e prodigi dell’elettronica, ma un mutamento di abitudini, regole, mode che nel frattempo, anno dopo anno, trasformavano inesorabilmente la nostra vita costringendoci ad un aggiornamento continuo anche delle nostre abitudini e delle nostre vite lavorative.
E adesso eccoci qui, molti di noi sfiniti da questo interminabile slalom, in cui siamo passati da un mondo dove esistevano cose semplici e ingenue sorrette da una educazione severa ma anche da un rassicurante clima di certezze e convinzioni assolute, ad una vita quotidiana all’insegna dell’incertezza totale su tutto. Ci nutriamo di tecnologia come se fossimo alla continua ricerca del bandolo della matassa, convinti come siamo sempre stati da un incessante e inesorabile avanzata dei messaggi promozionali, della pubblicità e del marketing che stia proprio lì, dentro il consumo di nuovi oggetti e di nuove cose e dentro l’ultima tecnologia o diavoleria elettronica, la soluzione miracolosa, quella che risolverà per sempre la nostra vita, quella che oggi si è per molti tradotta davvero nella spasmodica ricerca dell’ultima straordinaria e rivoluzionaria applicazione da smartphone, quella che potrebbe farti diventare milionario e risolvere d’un colpo ogni problema. Una specie di nuova e tecnologica ricerca della pietra filosofale.
Noi della generazione cerniera, quando ci guardiamo attorno e quando ripercorriamo il film di questi nostri ultimi e unici 50 anni, non riusciamo più a vedere nessuna pietra filosofale. Spesso ci portiamo dietro e dentro solo una grande stanchezza per tutti questi mutamenti incessanti, troppi forse per una vita sola, calati esattamente in quello che forse sarà per sempre ricordato come il periodo storico di trasformazione più radicale e improvviso nella storia dell’uomo. Tutto questo però, purtroppo, senza la possibilità di consegnare nessuna certezza alle future generazioni, come invece a noi, bene o male, era stato concesso.
Ci ritroviamo spesso esclusi anche dalle statistiche che sempre più sanciscono e fotografano inesorabili la realtà. Prima di noi una generazione la cui vita si è (per fortuna) allungata a dismisura e tende all’immortalità, dopo di noi una generazione di 20-30-40enni destinati ad una specie di eterna adolescenza coatta, spesso senza nessuna concreta possibilità di crescita effettiva, di staccarsi dall’alveo parentale e di passare definitivamente dallo status di figli a quello di genitori, e con la quasi certezza di ritrovarsi senza nessuna esperienza lavorativa spendibile sul mercato..
E che esperienze mai si potrebbero fare oggi, con le aziende che chiudono invece di aprire. In mezzo a tutto questo noi ci sentiamo spesso come dei fantasmi, troppo vecchi per ricominciare da zero, e sempre e per sempre troppo giovani per andare in pensione, o anche solo pensarci. Nelle statistiche noi spesso non siamo presenti, la società ci vede come quel blocco generazionale di cui non ci si deve occupare perché non coinvolto nei problemi degli anziani da un lato e dei giovani dall’altro. Non ci è concesso far parte del problema, perché sarebbe come ammettere che la società intera è a rischio di implosione su sé stessa, anche se invece è esattamente quello che sta succedendo.
In questa eterna terra di mezzo che noi della generazione cerniera stiamo percorrendo da quando siamo nati e che oggi più che mai da uno slalom sembra trasformarsi sempre di più in un vero proprio susseguirsi di montagne russe, un nuovo ruolo ci si sta preparando, un ruolo ancora una volta duro e difficile, in cui dovremo trovare nuove energie e nuove risorse scovandole chissà dove, come da sempre ci è successo di dover fare. Ci si prospetta l’inedito destino di traghettatori. Di portare il mondo da un prima che non vuole lasciare abitudini e regole sociali ormai obsolete anche se sono le uniche ancora omologate per consentici di andare avanti e per lo meno sopravvivere, a un mondo che invece non esiste ancora e che oggi naviga a vista tra apps tecnologiche, adolescenze eterne e incertezza su tutto. Siamo noi gli unici che possono farlo e siamo noi quelli a cui tutti guardano, in questo nostro fantasmatico apparire e scomparire tra indagini e statistiche che non vogliono prenderci in considerazione.
Ci guardano gli anziani che vedono in noi un baluardo alle loro vite, una specie di pilastro di appoggio su cui piaccia o non piaccia dover contare, ci guardano i giovani per avere la speranza di quel passaggio di consegne di cultura, esperienza e risorse a cui tendono disperatamente e che nessuno sembra in grado di offrirgli. Noi invece, la generazione cerniera, quando ci guardiamo e quando pensiamo a noi stessi, ripercorriamo tutta questa nostra incredibile storia di cinquantenni, un film alle volte veloce come un lampo, alle volte lento e interminabile, un percorso della memoria vissuto tra strettoie e passaggi culturali e sociali spesso di una complessità devastante. Ma sappiamo già che ancora una volta non possiamo vivere su nessuna certezza, come da sempre ci è successo di dover fare. Sappiamo già ancora una volta che non ci è concesso tirarci indietro. E sappiamo soprattutto che proprio a noi, già sfiniti da una vita che forse ne include due o tre messe insieme, si prospetta il compito di trovare un passaggio, nella terra di mezzo ormai di nessuno, in grado di unire il nuovo con l’antico, di trovare le nuove regole funzionanti dell’economia e della società, di prendere per mano le nuove generazioni concedendogli spazi e possibilità per crescere, anche sacrificando le nostre stesse vite, carriere, ambizioni personali.
Noi, sempre troppo giovani da un lato e già un po’ avanti con gli anni da un altro, spesso sfiniti e disillusi da mille esperienze, da continui alti e bassi a cui il mondo non ci aveva preparato, alle volte invisibili come fantasmi, alle volte troppo invadenti su ogni cosa, solido pilastro di certezze per molti tranne che spesso per noi stessi, vissuti come abbiamo sempre dovuto fare tra un cambiamento e l’altro, tra una porta e la successiva del nostro personalissimo slalom esistenziale, dovremo metterci al servizio del cambiamento più di quanto non avevamo mai pensato che sarebbe potuto toccarci, quando, a vent’anni, pensavamo che a cinquanta saremmo forse arrivati ormai vicini al momento di tirare i remi in barca. E invece i remi dobbiamo tenerli in acqua e nessuno sa per quanti anni ancora dovremo remare, anche se tutti sentono e intuiscono che non saranno certamente pochi.
E poi tirarci su le maniche per l’ennesima volta e portare avanti questa barca nella quale ci ritroviamo tutti ma dentro la quale, pur tra le nostre mille incertezze, spetterà ancora e solo a noi il compito di essere allo stesso tempo, che ci piaccia o meno, sia i rematori che i capitani.
Eugenio Ferrari, conoscevo un tuo omonimo, proprio negli anni bui che descrivi in questo eccezionale articolo. Appartengo alla generazione che racconti, in pieno, centrata come una freccetta sul tondino rosso del bersaglio. Hai saputo cogliere, dalla prima all’ultima, tutte le sfumature di questo malessere che mi porto dentro, ma che so portarsi dentro chiunque abbia la nostra età. Leggere il destino che ci aspetta, e peraltro che già viviamo, è molto difficile da accettare. Non so quanti di noi riusciranno a trovare così tante energie. Pezzo eccezionale, sei un grande scrittore.