Quella pazza voglia di vendere l’oro di Bankitalia. Ma si può fare?

Oro, una parola che da sempre evoca scenari affascinanti e misteriosi. E proprio negli ultimi giorni è tornato prepotentemente sotto la luce dei riflettori mediatici il tema delle cosiddette riserve auree di Bankitalia che di tanto in tanto, a dire il vero, viene rispolverato.

Fatto sta che nelle scorse ore si è fatta strada una indiscrezione che ha alimentato molte speculazioni nate attorno all’idea che le riserve auree di Palazzo Koch possano essere una possibile soluzione di emergenza ai problemi dei conti pubblici. Tradotto in poche parole: vendere una parte delle riserve auree per disinnescare le clausole di salvaguardia e scongiurare, così, l’aumento dell’Iva. Sarebbe questo, secondo ricostruzioni di stampa, il piano del governo. Dietro al quale, tra l’altro, ci sarebbe lo scontro tra Palazzo Chigi e Bankitalia con Salvini e Di Maio che avevano invocato l’azzeramento dei vertici. Il condizionale ovviamente è d’obbligo.

Ma facciamo un passo indietro. A entrare nel merito della questione è stato Claudio Borghi, deputato della Lega e presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, che al quotidiano torinese La Stampa ha spiegato: “In Italia ci sono leggi anche per regolamentare la vendita dei panini in salumeria, però manca una norma che dica chiaramente di chi sono le riserve auree”. Borghi ha escluso un immediato ricorso al tesoretto italiano, invocando però un immediato intervento legislativo per ovviare alla “anomalia dell’oro detenuto e gestito ma non posseduto dalla Banca d’Italia”.

Tanti gli interrogativi cui rispondere: Quanto valgono, dove sono e soprattutto di chi sono veramente?

Partiamo dalle cifre: iniziamo col dire che il valore più aggiornato delle riserve, il dato risale lunedì 11, è salito a fine gennaio 2019 a 91,8 miliardi, secondo la pubblicazione “banche e moneta” della Banca d’Italia.

L’Italia sostiene di possedere 2.451,8 tonnellatedelle quali 4,1 tonnellate sotto forma di moneta (si tratta di 871.713 pezzi di moneta il cosiddetto “oro monetato”) – di riserve auree. La Banca d’Italia, dunque, è il quarto detentore di riserve auree al mondo, dopo la Fed, la Bundesbank e il Fondo monetario internazionale.

Solo 1.100 tonnellate (poco meno della metà dunque) di quell’oro è in Italia, il resto è detenuto nei caveau di altre banche centrali per ragioni storiche, legate ai luoghi in cui l’oro fu acquistato, ma anche a una strategia di diversificazione finalizzata alla minimizzazione dei rischi e dei costi di gestione: il 43,29% è negli Usa, il 6,09% in Svizzera e il 5,76% nel Regno Unito.

Ma c’è ovviamente da fare i conti con una considerazione non di poco rilievo. Anzi: la Banca d’Italia fa parte dell’Eurosistema e dunque deve sottostare alla Bce.

E occorre ricordare che come previsto dall’articolo 123 del Trattato Ue le riserve auree sono sottoposte al divieto di finanziamento monetario poiché vengono considerate dai trattati un baluardo a difesa delle crisi valutarie e contro il rischio sovrano. Insomma l’oro dello Stato serve per rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario italiano e del sistema euro.

L’oro, in poche parole, è uno degli asset detenuto come garanzia della tenuta complessiva del sistema economico del paese in un portafoglio ovviamente diversificato.

Informazioni su Marco Blaset 155 Articoli
Giornalista economico della Federazione Svizzera e Direttore di Outsider News.

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