George Floyd la mattina del 25 maggio non immaginava di morire così, soffocato dal ginocchio di un poliziotto bianco. Di certo non immaginava neanche che le immagini orribili del suo brutale omicidio avrebbero fatto il giro del pianeta, scatenando proteste rabbiose negli USA, che si sono saldate al malcontento per la gestione del Coronavirus che ha causato una crisi economica profonda. Una vera e propria bomba a orologeria.
Quello che è avvenuto a Minneapolis, le immagini di un arresto per futili motivi tramutato in omicidio razziale, hanno scosso e indignato milioni di persone. Nove minuti che mostrano disprezzo per la vita umana. Nove minuti che sono il simbolo della sopraffazione bianca sugli afroamericani. Ma soprattutto il simbolo di una forma di potere che si è da tempo nutrito di quel senso di impunità che viene dall’alto, da chi ha riempito di razzismo gli USA, accentuando il senso di emarginazione delle comunità afroamericane. Un potere arrogante e sguaiato, nelle azioni, nel linguaggio, nei tweet imbarazzanti, nella costante discriminazione nei confronti di chi non ha la pelle bianca, i tratti di quella classe dominante che si riconosce in un presidente irresponsabile.
Quel potere che si sente impunibile è racchiuso tutto nel viso impassibile e spietato dell’agente Derek Chauvin che, con le mani in tasca, decide senza alcun timore di ignorare le implorazioni di Floyd e gli inviti dei passanti a mollare la presa, continuando a spingere per nove minuti, fino a quando il corpo sotto il suo ginocchio non si muove più.
Una morte che è andata oltre la cronaca, oltre i confini della città del Minnesota. Perché sotto quel ginocchio non c’era solo George Floyd, ma c’erano tutti gli esclusi d’America, tutti coloro che sono stati oggetto di un esercizio perverso e razzista del potere come quello dell’amministrazione Trump. Quel Trump che non ha mai espresso condanne contro le violenze della polizia e dei suprematisti bianchi. Un Presidente che non ha mai condannato né colpito i molti gruppi di estrema destra, neonazisti, residui di quel Ku Klux Klan che tanto orrore hanno seminato negli States.
La rabbia per la morte di Floyd è il frutto di anni di ingiustizie e violenza, fisica e verbale. Anni di frasi shock, di vuoto politico, di annientamento delle misure di equità sociale o di uguaglianza sanitaria che il predecessore Obama, con mille difficoltà e nonostante le resistenze di alcune lobbies, era riuscito a ottenere.
Negli USA il razzismo rimane il virus più infetto, che si appiccica ai tessuti più profondi della società americana, un virus che si trascina dagli albori della sua storia e che, nonostante le guerre, le battaglie, le grandi vicende di donne e uomini che hanno lottato e sono morti per i diritti delle comunità afroamericane, rimane ancora radicato nell’organismo della nazione. Ma negli USA, questo non può essere negato, è anche forte il sentimento antirazzista. Quello che spinge tanti volti noti a non tacere, a prendere posizione. L’anima più democratica dell’America infatti ha spesso polemizzato con la Casa Bianca, ha ingaggiato con Trump una lotta durissima. Attori, cantanti e soprattutto lo sport: dal baseball al basket al football, sono stati tanti i gesti eclatanti di personalità di primo piano, in segno di protesta contro le discriminazioni e le violenze razziali. Lo stesso sentimento antirazzista che spinge migliaia di persone, bianche e nere, nelle piazze. Piazze contro le quali Trump, con la bibbia in mano, avrebbe voluto mandare l’esercito, dichiarando guerra al proprio popolo.
Un’idea pericolosa e scellerata, che ha ricevuto la risposta durissima di alcuni poliziotti, come il capo della polizia di Houston, del Pentagono e perfino di alcuni esponenti repubblicani, come l’ex governatore della California, Arnold Schwarzenegger. Proprio l’ex star di Holywood ha difeso i manifestanti, affermando che “non odiano l’America ma chiedono un Paese migliore in nome di chi non ha più voce”. Chiedono agli USA di combattere “contro i propri demoni”, come razzismo ed emarginazione. Le manifestazioni che stanno scuotendo l’America, e che sono partecipate da bianchi e neri insieme, in effetti sono un’esplosione civile di dissenso nei confronti del governo.
Un dissenso che non contiene solo una forte vocazione all’uguaglianza e all’antirazzismo, ma che mischia anche la rabbia per una gestione superficiale e irresponsabile dell’emergenza Covid-19, che ha portato gli USA ad agire in ritardo, pagando un tributo di morti enorme.
Una situazione che ha toccato particolarmente le aree più povere delle metropoli americane, le fasce più emarginate, escluse dall’accesso ai servizi sanitari. Aree nelle quali vivono in gran parte afroamericani, che sono morti in misura doppia rispetto ai bianchi, come ci raccontano le statistiche sul Coronavirus negli Stati Uniti. Un colpo durissimo nei confronti di una comunità che deve già affrontare le conseguenze economiche del lockdown, che colpiranno maggiormente i lavori meno qualificati, occupati in gran parte proprio dai neri americani.
Un cocktail esplosivo di emarginazione, disoccupazione, disuguaglianza nei diritti e negli accessi ai servizi essenziali come la sanità, a cui si aggiungono le violenze e le umiliazioni subite sulla propria pelle per mano di una polizia nella quale resiste una grossa componente di suprematisti bianchi e di razzisti violenti.
Nelle proteste per la morte di Floyd c’è tutto questo senso di stanchezza e rabbia, alla quale partecipano anche tutti i cittadini bianchi lontani dall’upper class americana, cittadini che per la scadente gestione della crisi legata al virus si trovano oggi ad affrontare una difficilissima congiuntura che, per poter essere superata, richiede misure concrete e un presidente capace di lucidità, lungimiranza, uguaglianza e spirito democratico. Tutto ciò che Trump non è e non può essere. E che a novembre potrebbe costargli il posto alla Casa Bianca.