Per coloro che ancora credono che Facebook sia la loro stanzetta privata ecco qualche numero, per correggere il tiro il prima possibile. Vi presentereste ad un colloquio a petto nudo con una birra in mano mentre fate un gestaccio? Parlereste ad un colloquio di religione, di calcio in maniera aggressiva, di politica o altri argomenti che possano infastidire l’orientamento del vostro interlocutore? Raccontereste esperienze, competenze, passatempi, passioni o inclinazioni del tutto false sapendo che la persona con la quale state sostenendo il colloquio avrà modo di scoprire ciò che realmente siete e fate nel vostro tempo libero?
C’è da augurarsi che la risposta sia no. Il problema è che – involontariamente – alla fine finisce proprio così per molte persone che non tengono in considerazione la variabile principe: i social network non sono uno spazio privato, ma una vetrina pubblica che restituisce l’immagine della vostra quotidianità. I recruiter – che di professione sono chiamati a stanare glorie, ma anche miserie, di una candidato – sanno perfettamente che nell’ambito di un colloquio le persone tendono a dare risposte pre-confezionate che non sempre restituiscono la vera natura e le inclinazioni della persona che si trovano di fronte. Per questo motivo si avvalgono sempre più spesso dei social per valutare o verificare i profili.
La dottoressa Silvia Zanella, responsabile a livello globale del digital marketing per Adecco Group e autrice, insieme ad Anna Martini, del libro “Social Recruiter: Strategie e strumenti digitali per i professionisti HR” ci ha spiegato cosa vogliono vedere, ma soprattutto non vogliono mai vedere, le persone che si occupano di selezionare i candidati per posizioni lavorative:
– Contenuti sconvenienti. Questa macroarea passa dall’abuso di alcolici alle foto discinte o di dubbio gusto. Nessuno si aspetta che siate dei santi senza scheletri nell’armadio, ma di certo ci si augura di trovare persone dotate di buonsenso che sappiano discernere quali contenuti sono opportuni per la pubblicazione e quali appartengono alla sfera privata e la cui condivisione pubblica sarebbe, quantomeno, una scelta strategica discutibile. – Contenuti violenti, razzisti, zuffe da social, lamentele circa il proprio capo o ambiente lavorativo. Vale anche per i neo laureandi che danno sempre la colpa al professore di turno.
– Disallineamento. Se i primi due punti potevano essere abbastanza prevedibili (anche se, a giudicare dal trend di molti profili social pare non essere ancora un’oggettività assodata) il disallineamento può, invece, fare davvero la differenza. Come accennato i recruiter sanno perfettamente che le persone ai colloqui mentono, tentando di adeguare le proprie competenze e passioni alla mission dell’azienda. Per questo motivo si rende fondamentale il controllo fra quanto espresso dal candidato – soprattutto in termini di passioni, inclinazioni reali, passatempi e approcci – e la realtà dei suoi interessi espressa attraverso i social. La dottoressa Zanella ci ha fornito un esempio pratico: “Se una candidata per un lavoro nell’ambito del fashion, all’interno del proprio profilo personale non ha alcun riferimento a moda, tendenze e stili ma concentra la propria attenzione su tutt’altro, in qualche modo non sta confermando le pertinenze che vorrebbe convincerci di avere. Nessuno si aspetta di trovare il profilo della Ferragni, ma quantomeno che l’argomento sia fra i topic del profilo.”
Adecco, tre anni fa, ha svolto una ricerca in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, condotta a livello internazionale su 26 Paesi, e che in Italia ha coinvolto 2.742 candidati e 143 recruiter. Dal 2015 ad oggi, avendo il digitale come protagonista, i numeri non possono che essere aumentati. E’ emerso che il 35% dei recruiter ha dichiarato di aver escluso potenziali candidati dalla selezione a causa di informazioni contenute sui social. Niente social per non sbagliare? Purtroppo questa soluzione non funziona. Un dirigente su tre, secondo CareerBuilder, assume i candidati sulla base delle informazioni positive che hanno trovato online. I datori di lavoro sono stati più propensi a fare offerte ai candidati che: hanno qualifiche professionali sostenute sui social (42%); hanno un’immagine professionale positiva sui social (38%); possiedono una grande capacità di comunicazione (38%); dimostrano creatività (38%). Non avere un ruolo nei social media è spesso interpretato come un non voler partecipare. Offre un segnale di chiusura, arroccamento, inflessibilità, incapacità di aprirsi alle nuove tendenze, pigrizia. Senza considerare l’enorme valore aggiunto che rappresentano – una volta dimostrate le proprie competenze professionali – la curiosità, la flessibilità e la capacità di adattarsi in maniera funzionale ai rapidi cambiamenti verso i quali stiamo correndo.
Perché il punto cardine è proprio questo: in un mondo iper competitivo e iper qualificato non basta saper fare bene oggi il proprio lavoro, ma dimostrare di avere la flessibilità e la rapidità di saperlo fare anche domani con i nuovi strumenti con i quali – endemicamente – ci si trova a fare i conti.
Verissimo io è da tempo che lo sostengo alcuni non hanno ancora capito che i social sono come avere sempre gli occhi puntati addosso, molti per preferiscono solo curiosare e non mettono nulla di loro io quelli li considero dei vigliacchissima opponesti e non mi fiderei di loro