Sprazzi di gloria ma, soprattutto, molto dolore. “Nella nostra memoria noi troviamo di tutto: essa è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove mettiamo le mani a caso ora su una droga calmante, ora su un pericoloso veleno”, scrive Marcel Proust nel libro “La prigioniera”, quinto volume del fondamentale “Alla ricerca del tempo perduto”. Lo scrittore confronta la ricerca interiore e la ricostruzione interpretativa di un’opera d’arte. Tutto vive dentro di noi, nella rielaborazione, e così passato presente e futuro assumono nuove forme e dimensioni.
Questo accade anche nel cinema, attraverso il montaggio, e ce lo ricorda Pedro Almodóvar nel suo “Dolor y Gloria”, in concorso al 72esimo Festival di Cannes.
Esaminando diverse sequenze, sembrerebbe che il regista spagnolo si ripeta e faccia un bilancio della sua creatività. Tuttavia, nel suo insieme, l’opera filmica numero ventidue non è solo una summa delle suggestioni che attraversano la sua filmografia. In realtà, “Dolor y Gloria” mostra qualcosa di antico ma anche di nuovo, per parafrasare la poesia “L’aquilone” di Pascoli. Di nuovo in termini d’emozione trasmesse e di messa in scena nel segno dell’autenticità, del rigore visivo, della forza espressiva e del richiamo intimo a sofferenza e bellezza, ricordo e struggimento, rivisitazione delle proprie radici e spinta a superare l’impasse.
Merito di una regia e di una sceneggiatura, firmate da Almodóvar, che offrono una lezione su come scrittura e direzione possano armonizzarsi e, pur continuando un percorso che mette in relazione creazione e vita nello stile del cineasta di “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” e “Tutto su mia madre”, esprimere qualcosa in più in una veste cinematografica in simbiosi con l’essenza, con ciò che anima nel profondo il film e non smette d’interrogare sull’esistenza, sulle sue sofferenze e i suoi costanti interrogativi.
Da un punto di partenza che potrebbe richiamarsi a un modello irraggiungibile di creatività onirica e di profondità, come “8½” di Fellini, e con echi del cinema di Nanni Moretti, troviamo al centro il regista Salvador Mallo e una crisi interiore che lo apre a una radicale messa in discussione di sé. Da qui ci s’immerge in un flusso continuo d’immagini evocative che mescola rievocazioni scritte e visive, pittura, ironia che contamina l’amarcord, illusione e nostalgia per un cinema strettamente collegato con i cordoni ombelicali dell’infanzia, con gli affetti e le speranze di un tempo che fu.
Sogni e ricordi, ferite del corpo e dell’anima, flashback e ritorni in un presente paralizzato dal passato, in attesa di un varco catartico che consenta al personaggio principale di ripartire, con il set come ventre materno e risarcimento psicoanalitico dei dolori esistenziali, risultano toccanti e coinvolgenti, in profondità, grazie a una regia sensibile e aperta all’autenticità di sentimenti e tormenti. Non è importante che Antonio Banderas, notevole protagonista, di nuovo diretto dal regista che ha cambiato il suo destino nel lontano 1982, con “Labirinto di passioni”, sia necessariamente in tutto e per tutto lo stesso Almodóvar: il gioco di specchi e deviazioni, verità e menzogne creative di cui si nutre l’arte è più importante di ogni autobiografia.
Di certo, questo Banderas sofferente rappresenta un alter ego ideale per il regista. S’indaga sui misteri della psiche, delle malattie, esulla stagione del crepuscolo fisico dopo le esuberanze sessuali e le speranze nella Spagna post franchista. In quest’ambito, le forme multicolori dei titoli di testa e le animazioni di Juan Gatti, le visioni policromatiche della fotografia di José Luis Alcaine, il montaggio (denso di guizzi della mente e variazioni emotive, in linea con la sceneggiatura) di Teresa Font, le musiche di Alberto Iglesias e la scenografia di Antxón Gómez (la casa del cineasta è un altro elemento chiave della storia) alimentano la felice coesistenza di spirito e materialità, ieri e oggi, dolore e gioia inattesa, declino e speranza, melodramma e intimismo, consapevolezza e prevalenza dell’inconscio.
In linea con questo clima, ben analizzato dai critici Gianni Canova (on line su We Love Cinema), Roy Menarini (su My Movies) e Francesco Ceraolo (Fata Morgana Web: “Il cinema come forza salvifica, in grado di restituire significato allo sguardo a partire dalla sua capacità di rimodellare e restituire vita ai corpi. È da sempre uno dei temi cruciali del lavoro di Almodóvar.”), le amate interpreti Cecilia Roth, Penélope Cruz (la madre del protagonista da giovane), Julieta Serrano (la madre d’anziana), ma anche gli attori Asier Etxeandía e Leonardo Sbaraglia, danno concretezza ai fantasmi e a un immaginario colto e popolare al tempo stesso.
La cinematografia degli anni Sessanta, lo sguardo del piccolo Salvador (impersonato dall’espressivo Asier Flores), la voce sognante di Mina (in “Come sinfonia” di Pino Donaggio), i primi desideri e turbamenti, l’amore maturo, i conflitti e le riconciliazioni, la mappa delle patologie che affliggono il corpo, gli stordimenti dell’eroina e le operazioni chirurgiche, le riscoperte e le porte inattese del caso si fondono in un racconto per immagini che fa della verità emotiva un viatico per accettare la dolorosa imperfezione del vivere. Come Proust nel “Tempo ritrovato” e in tutta la “Recherche”, anche Mallo, ovvero Almodóvar, si riaccosta alla sua infanzia e alla profondità della memoria “perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti”. È il cinema ad aiutarlo a riannodare gli antichi fili della vita e a combinarli in una forma nuova, come solo l’arte sa realizzare e trasmettere. Nell’epilogo, non a caso, ciò che Salvador ricorda si tramuta in set. Miracolo di un linguaggio, quello filmico, evocativo e mutevole al pari dei sogni.
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