Terrorista, bandito e boss: Massimo Carminati, l’uomo che visse tre volte

Ci sono uomini che vivono più vite, che sono in grado di adattarsi alle diverse fasi storiche. Massimo Carminati è uno di loro. Ha attraversato quarant’anni di storia italiana mutando continuamente pelle, pur conservando il suo DNA criminale. Terrorista dei NAR negli anni ’70 (e partner della Banda della Magliana), bandito e rapinatore negli anni ’80 e ’90 e infine boss, non mafioso secondo l’ultima sentenza della Corte di Cassazione.

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Ha cominciato a girare con la pistola in tasca ancora prima di compiere 17 anni, quando a Roma le armi da fuoco iniziavano a sostituire le mazze negli scontri quotidiani tra rossi e neri, a metà anni ’70. Massimo Carminati lo chiamano ‘il Pirata’ per via della benda sull’occhio perso nel 1981, a 23 anni. Per amici e conoscenti è l’unico soprannome. Gli altri, quelli con cui lo conosce il vasto pubblico, se li è inventati Gianfranco De Cataldo, autore del fortunatissimo Romanzo criminale e, con Carlo Bonini, di Suburra.

I libri li hanno letti in molti, i film o le serie tv le hanno viste in moltissimi e per tutti, ormai Carminati è “il Nero” o “il Samurai”: «Quella è una macchietta. Mi ci pigliavano in giro tutti», commenta sprezzante il diretto interessato nella sua prima deposizione in quasi quarant’anni di processi, in videoconferenza di fronte alla Corte d’Assise del processo Mafia Capitale, a Roma.

«Rispondo perché me lo hanno chiesto gli avvocati. Io per me non lo avrei fatto», ha esordito l’accusato numero 1 del processo. Difficile credergli. L’uomo è senz’altro intelligente e certo non gli è sfuggito quanto importante fosse la sua deposizione. In questo processo, infatti, non sono i fatti quello che conta davvero. Il punto chiave è lui, Massimo Carminati, è la realtà di quella “straordinaria caratura criminale” che viene citata a più riprese nelle ordinanze della Procura di Roma. Solo in virtù di quello “spessore criminale” spunta l’accusa di associazione mafiosa in un processo che, quanto a fatti concreti, non andrebbe oltre un vertiginoso ma non inusuale giro di mazzette e una vicenda di “recupero crediti”. Tangentari e cravattari a iosa, ma di qui a fare il paio con don Totò Riina da Corleone ce ne passa.

Se al ‘processone’ romano si parla di mafia, sia pure di una mafia anomala e sui generis, una mafia che non ammazza, neppure mena e persino le minacce sono in realtà da dimostrare, è solo perché a capo della piovra ci sarebbe lui, ex terrorista nero, ex sodale della temuta banda della Magliana, e poi, stando all’accusa, “re di Roma” abituato a discutere da pari a pari e anzi un gradino più in alto con tutti i boss della Capitale. “Senza di me questo processo sarebbe ridicolo”, sbotta l’imputatissimo e non ha torto. Quello che va dimostrato è proprio il presunto altissimo ruolo nell’universo criminale della città eterna di Carminati Massimo, classe 1958, nato a Milano ma cresciuto a Roma.

L’imputato lo sa e fa il possibile per scrollarsi di dosso quell’immagine da aristocrazia del crimine. «Ma quale Mafia Capitale, questa è tutt’al più la mafia del benzinaro», ironizza alludendo all’abitudine sua e dei suoi stretti compari di incontrarsi da un benzinaio di Corso Francia. Gli rinfacciano di tenere in bella vista, a casa, una katana, la spada giapponese, proprio come ‘il Samurai’ del romanzo Suburra. «Me l’hanno regalata proprio per prendermi in giro dopo quel romanzo. Serve sfilettare il tonno», ironizza ancora il presunto Samurai.

Carminati sa di camminare lungo un sentiero stretto. Ostenta la militanza nell’estrema destra armata dei vecchi tempi: «Sono un vecchio fascista degli anni ’70 e sono contentissimo di essere quello che sono». Rivendica anche, con palese orgoglio, la scelta di vivere nell’underworld criminale: «Nel mondo di sotto abbiamo pochi comandamenti, forse tre, però li rispettiamo. Le anime belle che stanno di sopra di comandamenti ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno: tutti sòla e truffatori». Carminati mira a restituire un’immagine precisa di se stesso. Un bandito (“Non sono una mammoletta”) ma con un preciso e rigoroso codice d’onore (“Quando dicono che lavoro per i servizi segreti è un’offesa”) e che si è sempre rifiutato di spacciare droga. Un solitario, ben diverso dal capo cosca dipinto dall’accusa: «Fanno la fila per ammazzarmi, ma essere solo contro tutti non mi fa paura. Meglio uno contro tutti che tutti contro uno».

In questo processo, il più mediatico del decennio in corso, cercare la verità vuol dire chiedersi chi è davvero Massimo Carminati. I Nar, Nuclei armati rivoluzionari, la principale banda armata di estrema destra nel decennio violento della storia repubblicana, Carminati li ha frequentati davvero e da vicino. Grazie alle sue amicizie con la criminalità romana ha aiutato Francesca Mambro a trovare un rifugio, dopo l’arresto del marito, Valerio Fioravanti. «Però – assicura Francesca Mambro, che con Fioravanti i Nar li ha fondati – Massimo non ne ha mai fatto parte». Era in classe, al Tozzi di Roma, con lo stesso Fioravanti, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi, il nucleo dei Nar, ed era certamente in prima fila tra i duri della destra estrema romana. Ma alle azioni del gruppo non ha mai preso parte e in realtà tra lui e Fioravanti non c’è mai stata grande amicizia.

«A scuola – ricorda Fioravanti – diceva di voler trasgredire le norme dell’intero codice penale». Ma sui rapporti con la criminalità i due la pensavano all’opposto. Stando alle condanne, Fioravanti e i Nar hanno all’attivo una sola azione insieme, la maxi rapina alla Chase Manhattan Bank di Roma. Sono stati entrambi condannati ma Fioravanti è sicuro che Carminati a quella rapina non abbia invece preso parte. La sparatoria nella quale ‘il Pirata’ ha perso l’occhio effettivamente con i Nar c’azzecca, ma per vie indirette. I poliziotti appostati al varco usato abitualmente dai Nuclei neri per passare clandestinamente in Svizzera aspettavano la Mambro, allora la terrorista forse più temuta in Italia. Aprirono il fuoco senza pensarci due volte quando videro avvicinarsi la macchina sospetta. Nella quale c’erano invece, disarmati, Carminati e altri due fascisti rimasti illesi.

Anche il rapporto con la ‘bandaccia’ più famosa d’Italia, quella della Magliana, è incerto. Carminati era sicuramente un pupillo di Franco Giuseppucci, ‘er Negro’, primo capo della banda e a sua volta fascista sfegatato. Er Negro chiedeva ai “pischelli” neri come Carminati e Alessandro Alibrandi qualche favore, incluso, secondo i pentiti, l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli, uno dei grandi delitti insoluti della storia italiana. Per quell’omicidio, però, Carminati non è mai stato condannato e, in ogni caso, si sarebbe trattato anche in quel caso del rapporto personale con Giuseppucci più che di una vera partecipazione alle attività della Banda. La sola condanna per fatti legati alla Magliana a carico del Pirata riguarda il deposito d’armi nei sotterranei del ministero della Salute, al quale certamente attingevano sia i banditi che controllavano lo spaccio in tutta Roma, sia il fascista che sbarcava il lunario rapinando banche una dopo l’altra.

Non si tratta di particolari biografici trascurabili. I trascorsi nei Nar e nella Banda occupano infatti un posto di assoluto rilievo in quella “straordinaria caratura criminale” che, secondo la Procura di Roma, vale a trasformare la melma romana del nuovo millennio in mafia propriamente detta. In entrambi i casi però Carminati risulta più una figura contigua, certo con ottimi rapporti e pronto a dare una mano, come quando s’improvvisò docente in preparazione di bombe ed esplosivi a uso dei banditi romani, però mai davvero “interno”.

La carriera banditesca di Carminati, dopo i Nar e la Magliana, procede tra processi e lunghi periodi di detenzione: in tutto poco meno di 15 anni di galera. Il nuovo colpo grosso lo mette a segno nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1999. Con un gruppo di complici svaligia il caveau della banca del tribunale di Roma. Si portano via una cifra cospicua, 18 miliardi di vecchie lire. I rapinatori forzano anche 147 cassette di sicurezza, e ci sono giornalisti convinti che il vero obiettivo fosse proprio il loro contenuto, che avrebbe poi permesso a Carminati di tenere sotto ricatto magistrati a mazzi.

L’ipotesi è suggestiva ma al momento del tutto priva di prove a sostegno e poco sostenuta dai fatti. Per essere un intoccabile Carminati non se la passa troppo bene: è in regime di carcere duro, il famoso “41bis” riservato ai mafiosi. Sino a qualche anno fa di detenuti in attesa di giudizio costretti comunque al carcere duro ce n’erano un bel po’, ma negli ultimi tempi, dopo le denunce internazionali che considerano il 41bis una forma di tortura, il gruppo si è ristretto a un solo carcerato, proprio ‘il Pirata’.

Nel complesso è certo che l’imputato principe di Mafia Capitale abbia fatto il possibile per sminuire il proprio ruolo, riducendo le frequentazioni con alcuni dei più temuti capi dell’universo illegale romano a faccenda di poco conto: “Michele Senese? Lo conosco benissimo perché siamo stati in carcere nello stesso periodo. Ma affari insieme non ne abbiamo mai fatti. Luciano Casamonica? L’avrò visto 4 volte in vita mia. Ernesto Diotallevi? Era passato a prendersi un caffè”. Ha anche smentito ogni rapporto politico pesante, in particolare con l’ex sindaco Alemanno, che ha scagionato da ogni accusa pur confessando di disprezzarlo. Ma nel complesso Carminati è riuscito ad accreditare l’immagine di bandito solitario e “di strada” più che di mafioso. La Cassazione gli ha dato ragione, la storia poi darà un giudizio finale.

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