Il lockdown soft rischia di far sgonfiare come neve al sole il recupero del Pil nel terzo trimestre, con un impatto rilevante anche sulla produzione industriale che lo ha sostenuto fin qui. Anche se riguardano solo alcuni servizi (ristoranti, bar, palestre, cinema) le nuove misure restrittive hanno un effetto negativo su fiducia e consumi in Italia, effetto che si somma a quello degli altri Paesi dove le dinamiche sono similari – anche la Germania – e si trasformano in un calo potenziale dell’export per tutto il made in Italy, dalla meccanica al tessile. Risultato: il Pil del quarto trimestre potrebbe segnare un calo fino al 6%.
Così i dati di settembre (positivi su Pil, produzione e consumi) rischiano di essere una effimera illusione, come lo è stato il ritorno alla normalità dell’autunno che ci ha portati fin qui. E senza una visione strategica e di reale riforma, potrebbe essere inutile anche il Recovery Fund, come solo una toppa per l’emergenza sono i 10 miliardi in arrivo dalla Ue, annunciati dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Ne abbiamo parlato con Massimo Rodà, economista dell’Ufficio Studi di Confindustria e con Fabio Arpe, banchiere e fondatore di Arpe Group, società di consulenza focalizzate sulle pmi italiane.
I numeri del disastro
Ma iniziamo dai numeri su economia e industria. I dati sul terzo trimestre mostravano un quadro relativamente positivo su molti indicatori economici, attestando il recupero della produzione manifatturiera, delle costruzioni, del commercio estero, del mercato del lavoro. Ma la stessa Istat avvisava che il recente riacutizzarsi della pandemia avrebbe potuto «condizionare in misura significativa lo scenario a breve termine». A settembre, nonostante un miglioramento della fiducia, la manifattura italiana segnalava infatti la presenza di ostacoli alle esportazioni e alla produzione, «ancora condizionata, secondo i giudizi degli imprenditori, da insufficienza di domanda». Le nuove misure di emergenza, in quella che emergenza non è più, ma storia già scritta, potrebbero dare il colpo di grazia all’economia, minando la fiducia in maniera decisiva.
Eppure la manifattura è ciò che a settembre aveva consentito al Pmi composite italiano di aumentare a 50,4 dal 49,5 di agosto. «L’incremento è stato supportato dall’industria manifatturiera italiana, che ha registrato un forte rialzo del volume degli ordini. Al contrario, per il terziario il flusso delle commesse ha mostrato una contrazione». E anche se l’Indice della produzione futura era risalito, toccando un valore record in quasi cinque anni e indicando un forte irrobustimento della fiducia sull’attività dei prossimi dodici mesi, le vicende delle ultime settimane potrebbero farci ripiombare, rapidamente, in un nuovo febbraio.
Minilockdown: qual è l’impatto sul Pil e sulla produzione industriale
La situazione è molto preoccupante, secondo Massimo Rodà, economista dell’Ufficio Studi di Confindustria. E questo anche se un nuovo lockdown generalizzato sarà evitato, come è nelle parole del premier. «La chiusura delle attività produttive sarebbe fuori luogo, perché il problema non sta dentro le imprese, come i numeri di Istat hanno dimostrato: il tasso di contagio nelle imprese è stato stimato in 2,8% contro il 2,7% della media nazionale. Sono forse necessari lockdown localizzati, come sta succedendo in altri Paesi. Certamente la chiusura soft decisa in questi giorni crea danni alle attività commerciali, bar e ristoranti direttamente coinvolti, e in seconda battuta anche all’industria». Rodà spiega il perché facendo ricorso ai numeri. «Nel corso del primo lockdown avevamo stimato che l’impatto in termini di Pil di una settimana di lockdown – secondo le modalità allora decise e che prevedevano anche il blocco di circa il 60% delle imprese dell’industria – era intorno al -0,8%. Le misure restrittive appena varate sono per il momento del tutto diverse e non hanno lo stesso impatto negativo perché le chiusure sono parziali, limitate a un mese e riguardano solo alcune attività di servizi; quindi la perdita di Pil per effetto del provvedimento attuale non è lontanamente comparabile a quella stimata a marzo».
Ma è inevitabile che il blocco delle attività nei servizi abbia anche delle ripercussioni nell’industria, che subirà un contraccolpo in seconda battuta, a causa della diminuzione della domanda legata alle attività che sono state interessate dal blocco previsto nell’ultimo Dpcm. «Per la nostra economia il problema, ad ogni modo, non è solo legato ai minori consumi interni, ma anche all’impatto delle misure di contenimento già introdotte nel resto di Europa, dove si osserva, più che in Italia, un rapido peggioramento della situazione sanitaria.
Gli effetti della caduta della domanda negli altri Paesi, in primis in Francia e Spagna, dove la situazione appare fuori controllo, ma anche in Germania – che ha una dinamica dei contagi simile a quella registrata in Italia – ridurranno la domanda di beni italiani, riducendo nei prossimi mesi l’export della nostra industria». A questo infine si aggiunge che l’aumento dell’incertezza sull’uscita dalla crisi sanitaria e sulle sue conseguenze nel mercato del lavoro porteranno, come già si è osservato nei mesi scorsi, a un ulteriore incremento del risparmio precauzionale che si traduce in minori consumi e, quindi, minore produzione e minore Pil. Insomma, a generare danni non è tanto e solo il secondo lockdown, che per il momento è soft, ma l’impatto psicologico che fa tornare famiglie e imprese nel mood di marzo: le attese sono di ulteriore inasprimento delle misure e dunque il calo della fiducia è generalizzato. Il che vuol dire calo dei consumi, come già detto, ma anche un rinvio degli investimenti a causa del peggioramento delle attese sul futuro.
Aumenta la divaricazione tra Industria e servizi
Le stime di Confindustria erano, già prima delle misure attuali, di un quarto trimestre piatto. Ricorda Rodà: «Nel rapporto di previsione presentato a inizio ottobre abbiamo indicato un rimbalzo del Pil dell’11,5% nel terzo trimestre; tenendo in conto dei dati comunicati successivamente sulla produzione nell’industria e nelle costruzioni in agosto, potrebbe essere anche superiore; alle condizioni attuali nel quarto trimestre si potrebbe avere un andamento peggiore di quello stimato, per le motivazioni che abbiamo già discusso. C’è da sottolineare che alla positiva dinamica del Pil nei mesi estivi (dopo un primo trimestre chiuso a -5,5% e un secondo a -13%), l’industria ha dato un contribuito molto significativo». La manifattura in agosto ha recuperato interamente la perdita del 50% registrata in marzo e aprile, mentre i servizi – che però pesano per circa il 70% del Pil – si sono mostrati deboli e hanno frenato la crescita. «Si assiste a una crescente divaricazione tra i due settori, come mostra anche l’andamento dei Pmi (manifatturiero e terziario) che, verosimilmente, proseguirà anche nei prossimi trimestri».
L’economia nel quarto trimestre rischia di perdere fino al -6%
Un rallentamento a fine anno era nelle cose e lo dimostrano anche le previsioni del Governo che nella Nadef prevedeva un Pil a +0,4% nel quarto trimestre, nello scenario base. «Nel caso del verificarsi dello scenario peggiore (dal punto di vista sanitario) il Governo aveva stimato una dinamica del Pil più negativa di circa 1,5 punti in media d’anno, portando la caduta nel 2020 al -10,5% a fronte del -9% dello scenario base. Se così fosse significherebbe aver già pregiudicato il 2021, sul quale ricadrebbe un trascinamento statistico negativo che, per essere recuperato richiederebbe un rimbalzo molto forte già nel primo semestre, cosa che – vista la tendenza in atto – ritengo altamente improbabile».
Mancanza di strategia
Alla base di questo disastro c’è l’assoluta mancanza di pensiero strategico, ma anche tattico. Lo sostiene Fabio Arpe, banchiere di lungo corso, a capo della società di advisory Arpe Group, società di consulenza specializzata sulle pmi. «Quella che stiamo attraversando è una crisi della Sanità, più che una crisi sanitaria. In Italia registriamo in un anno normale mediamente 1800 morti al giorno; quindi il Covid, che ne aggiunge circa 100 al giorno nei periodi di picco, non ha cambiato in maniera drammatica l’ordine di grandezza della mortalità italiana. Ma l’elevata contagiosità del virus ha portato a un vertiginoso incremento del numero di persone costrette a rivolgersi al sistema sanitario che è andato in sofferenza e oltretutto non può dimenticarsi di curare le altre patologie. In altre parole, il virus è estremamente contagioso ma non altrettanto mortale. L’attuale minilockdown è abbastanza preoccupante perché evidenzia una mancanza di strategia a medio termine e carenze nella gestione tattica».
Se modelli statistici sulla Sanità erano saltati a febbraio a fronte di quella che poteva essere considerata una sorpresa, la seconda ondata era prevedibile e preannunciata da molti esperti e quindi si sarebbero dovuti utilizzare questi mesi per rafforzare il sistema sanitario in modo da renderlo resiliente e non farsi trovare di nuovo impreparati. Cosa che non è stata fatta.
…e di pensiero tattico
Non solo. «Avevamo anche un potenziale vantaggio tattico: le scuole negli altri Paesi sono partite due settimane prima e abbiamo avuto la possibilità di vedere in anticipo la conseguente esplosione dei contagi, tra i bambini infatti è complicato chiedere il social distancing come è impensabile che poi in famiglia non ci siano contatti con genitori. Se l’errore strategico è stato quindi di non fare subito un’importante riforma della sanità, l’errore tattico è stato quello di riprendere l’autunno come se nulla fosse successo, ignorando anche le dinamiche in atto in altri Paesi come Francia e Spagna. Così, complice anche il maltempo e il conseguente affollamento dei mezzi pubblici, il contagio è andato alle stelle».
E dunque il minilockdown rischia di essere insufficiente, ma soprattutto non garantisce su una corretta gestione di una possibile terza ondata. «Le notizie avvertono che il vaccino potrebbe non essere la soluzione definitiva se l’immunità sarà temporanea, e quindi la necessità di rafforzare in maniera strutturale il sistema sanitario rimane invariata. Casi di persone che si sono riammalate di Covid e sono tornate in ospedale, e addirittura sono morte al secondo contagio, sono un segnale da tenere presente al proposito. In altre parole, manovre che prevedono di chiudere tutto, riportare la curva del contagio sotto controllo, senza una strategia di rafforzamento della sanità che ci permetta di convivere con il virus anche se il vaccino non risolvesse definitamente il problema, non vengono annunciate né tanto meno attuate. Non possiamo certo permetterci il rischio di affrontare una terza ondata senza un sistema sanitario all’altezza».
Serve una soluzione strutturale, perché con le economia non siano travolte anche le banche
Se non fossimo in grado di gestire nel tempo in maniera strutturale la crisi Covid, secondo Arpe, potremmo assistere nel 2021 a una ripresa meno convincente o addirittura ad un aggravarsi della crisi economica in atto. Crisi che si ripercuoterà anche sulle banche, costrette ad accantonamenti sempre maggiori. «Quello che mi aspetto nelle prossime settimane, sono andamenti dei mercati sempre più prudenti e non escludo anche possibili brusche discese. L’attuale fase di incertezza e la virulenza di questa seconda ondata infatti, senza dubbio peggiorano le prospettive di ripresa. È importante che il governo risponda in maniera strutturale a questa crisi e non solo con provvedimenti tampone. Ad esempio, le ipotesi avanzate dalla Commissione Colao che avrebbe dovuto ripensare la ripresa del Paese, dove sono finite? La situazione va risolta in maniera strutturale e oggi è importante che non ci si concentri solo sulle chiusure, ma che si dia a tutti gli operatori economici la certezza che si sta lavorando per risolvere in maniera definitiva la crisi. Solo così i consumatori torneranno a spendere e gli imprenditori a investire», conclude Arpe (Fonte: Industria Italiana).