La plastica è talmente diffusa nella vita quotidiana che è impossibile immaginare di poterne fare a meno. Il computer è in plastica, il cruscotto della macchina è in plastica, e in plastica sono pure i rivestimenti del cellulare, il teflon della padella antiaderente, le tubature di luce e gas, i CD, la moquette e pure il vestito che si indossa. Senza la plastica, per esempio, un’auto peserebbe almeno 200 kg in più.
E non si pensi che il mondo della plastica si limiti ai vari PET e PVC: le sue combinazioni chimiche sono talmente tante che anche l’esperto più navigato fa fatica a star loro dietro… Basti pensare all’ultima scoperta, ovvero un materiale che sanguina e poi si rigenera come i tessuti umani!
Come ha fatto ad assumere tanta egemonia in poco tempo? Grazie alle sue caratteristiche, globalmente più vantaggiose rispetto ai materiali metallici e non, spiega Wikipedia. Che sono, in estrema sintesi, la grande facilità di lavorazione, la leggerezza, l’economicità, la colorabilità, l’isolamento acustico, termico, elettrico e meccanico (vibrazioni), la resistenza alla corrosione e l’inerzia chimica, nonché l’idrorepellenza e l’inattaccabilità da parte di muffe, funghi e batteri.
Tutte virtù, queste, per cui val bene soprassedere sui (pochi) difetti, che sono l’attaccabilità da parte dei solventi e degli acidi e la scarsa resistenza a temperature elevate.
C’è un piccolo particolare, tuttavia, che rende questo vitale materiale tanto amato quanto odiato: la plastica si ottiene dalla lavorazione del petrolio. I rifiuti plastici, dunque, hanno quasi tutti una biodegradabilità lentissima al punto che oggetti come cosmetici, contenitori e giocattoli abbandonati nell’ambiente impiegano dai 100 ai 1000 anni per essere degradati, mentre per quelli apparentemente più inconsistenti, come le carte telefoniche ed i sacchetti, il tempo necessario è almeno 1000 anni.
Non solo: molte plastiche non possono nemmeno essere bruciate negli inceneritori o in un comune caminetto perché producono diossina. L’inquinamento da plastica non è uno scherzo: basti pensare anche solo a quella che, in mare, soffoca i pesci, deturpa l’ambiente e rilascia sostanze tossiche. Dunque, appurato che la plastica è tanto utile quanto dannosa, come limitare i danni? Può bastare l’aver messo al bando i sacchetti non biodegradabili? Certamente no.
Riciclare la Plastica
Innanzitutto, la si può riciclare. Prima, però, bisogna differenziarla. E qui casca il primo asino, almeno in Italia. Perché differenziare è una forma mentis, spesso una noia. Chi separa la carta dalla plastica lo sa, si fa prima a gettare tutto in un unico contenitore. E poi, per differenziare bisogna essere messi nelle condizioni per farlo.
Il secondo step del riciclo prevede un complesso procedimento di rilavorazione termica o meccanica dei rifiuti, che diventano così punto di partenza per nuovi prodotti. Come per tutte le cose, il riciclo è stato duramente criticato dai puristi per vari motivi: gli elevati costi ambientali del processo di trasformazione dei rifiuti, il basso rendimento nella quantità delle materie prime ottenute, la scarsa qualità dei prodotti finali. C’è chi afferma che, per come è stato pubblicizzato tra la popolazione, ha diffuso l’idea che esso giustifica condotte consumistiche.
A conti fatti, i sistemi più efficaci per la gestione dei rifiuti sarebbero, in teoria, quelli basati sulla riduzione dei rifiuti e sul loro reimpiego. Tornare al caro e vecchio vuoto a rendere, per farla breve. Se invece si vuole ragionare in termini di economia, non bisogna tralasciare il fatto che il riciclaggio apre un nuovo mercato che si traduce, ovviamente, in nuova occupazione. Secondo l’ASSORIMAP, Associazione Nazionale Riciclatori e Rigeneratori di Materie Plastiche, in Italia sono circa 300 le imprese che si occupano di riciclaggio e rigenerazione di materie plastiche, con una capacità di riciclo seconda, in Europa, solo alla Germania. In tutto, danno lavoro a 2.000 dipendenti, cosa che in questi anni di crisi e disoccupazione alle stelle non fa affatto male.
La Diossina
Tutta la plastica non raccolta o non riciclata può essere destinata al recupero energetico mediante il processo di termovalorizzazione. In questo caso si recupera l’energia contenuta nei rifiuti plastici, che le deriva dal petrolio ed è interamente sfruttabile: la plastica, infatti, ha un potere calorifico paragonabile a quello del carbone. Attenzione, però: alcuni tipi di plastiche, se bruciate, producono diossina.
Una volta passato un accurato esame, il materiale finisce nei combustibili alternativi (anche detti CDR) che possono essere utilizzati sia nei processi industriali che per la produzione di energia termoelettrica. A conti fatti, il CDR potrebbe essere un’ottima fonte di business. Di certo, la materia prima non manca.
L’alternativa: la Bioplastica
Una valida soluzione contro l’inquinamento è la bioplastica, creata da materie prime rinnovabili che, in alcuni casi, hanno anche il pregio di non rendere sterile il terreno sul quale vengono depositate. Dopo l’uso, consente infatti di ricavare concime fertilizzante dai prodotti realizzati, come biopiatti, biobicchieri, bioposate, e di impiegarlo per l’agricoltura.
Eppure, a quanto pare, la bioplastica non è la panacea di tutti i mali. Per esempio è più sensibile al calore, la filiera che porterà al prodotto finale richiede molta acqua e non è detto che si biodegradi nell’ambiente così in fretta come sostengono i suoi difensori. Come sottolinea Lifegate, però, questi difetti scompaiono davanti a quelli molto più gande della PET, che spesso la bioplastica va a sostituire.
E se la soluzione a molti problemi fosse in un piccolo e semi-sconosciuto fungo? Qualche tempo fa una equipe universitaria ha casualmente scoperto in Amazzonia il Pestalotiopsis microspora, specie fungina capace di degradare il poliuretano, sostanza plastica utilizzata per la produzione di moltissimi oggetti di uso quotidiano. Il funghetto è stato subito messo sotto torchio dagli scienziati per capire se e come utilizzarlo. Ovvio che tutto il mondo tifa per lui.
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