La guerra tra Israele e Hamas continua senza sosta. Entrambi le parti rilanciano dichiarazioni sempre più minacciose e la comunità internazionale sembra assistere impotente all’escalation militare. In questo clima cupo arriva una proposta per la pace in Israele di Vittorio Emanuela Parsi, Professore Ordinario di Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università Cattolica ed esperto di Medio Oriente.
Di seguito la proposta integrale del Prof. Parsi pubblicata su Il Grand Continent su cui varrebbe la pena di aprire un dibattito senza pregiudizi.
Premessa e forze in campo
Nell’arco di 24 ore, Bibi Netanyahu è riuscito nell’impresa di contraddire se stesso senza accontentare nessuno. Mercoledì sera, nell’intervista alla rete televisiva americana Abc, il premier israeliano aveva affermato che Israele ipotizzava di rioccupare la Striscia «a tempo indeterminato». Il giorno dopo, davanti alle telecamere di Fox news, anche a fronte della dura reazione dell’amministrazione Biden, Bibi sosteneva l’esatto contrario, affermando però che fosse necessario prevedere una forza di sicurezza in grado di impedire che dal territorio di Gaza potessero nuovamente originare azioni ostili verso lo Stato ebraico e la sua popolazione, anche al costo di eliminare nuclei di terroristi in procinto di compiere simili atti.
La contraddittorietà delle parole di Netanyahu attesta tre cose: 1) che il governo di Tel Aviv non ha ancora una posizione definita e definitiva su come gestire la fase successiva alla cessazione delle operazioni militari nella Striscia; 2) che le pressioni internazionali a favore di un cessate il fuoco e della ricerca di una soluzione politica della crisi (specialmente quelle americane e occidentali ma anche quelle dei Paesi arabi conservatori) pesano sulle decisioni del governo israeliano; 3) che è fondamentale avanzare adesso, non domani, una proposta concreta che consenta il passaggio dalla fase militare a quella politica.
Al momento, il Gabinetto di guerra israeliano non ha la più pallida idea della fase successiva all’auspicabile – ma non altrettanto realizzabile – eradicazione militare della presenza di Hamas da Gaza. Fino ad ora, Israele ha mostrato di avere in mente solo la componente «cinetica» della strategia che coincide con la totalità dell’attuale disegno strategico. All’interno di una simile concezione – che il buon vecchio Clausewitz avrebbe trovato monca e, quindi, politicamente perdente – non stupisce la determinazione con cui Bibi si chiude, tetragono, a qualunque ipotesi di cessate il fuoco. Non tragga in inganno la possibilità di qualche breve «pausa umanitaria», determinata in realtà dalle soste tecniche tra le diverse fasi delle operazioni di terra. Se ciò che guida le proprie azioni è la mera «necessità militare», allora qualunque pausa che non derivi dai propri vincoli logistici, organizzativi e tattici diviene ovviamente inconcepibile. Rimane il punto che, prima o poi, le Idf (Israel Defense Forces) dovranno ritirarsi da Gaza e passare la mano a qualcun altro. Già, ma a chi e con quali modalità?
In questi giorni sono circolate diverse alternative. Gli Americani stanno premendo per un passaggio della Striscia sotto l’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese e di Fatah, il gruppo che fa capo ad Abu Mazen e che nominalmente governa Ramallah e le minuscole porzioni di territorio nel quale peraltro le Idf e la polizia israeliana entrano ed escono quando credono e non precisamente in punta di piedi. Si tratta di un’ipotesi lunare. Se Abu Mazen accettasse di prestarsi a una simile iniziativa perderebbe qualunque residua credibilità agli occhi del suo popolo e un’amministrazione imposta dalle baionette israeliane finirebbe bersaglio dell’ira dei gazawi. Sarebbe il più grande regalo ad Hamas che si potrebbe immaginare e rovescerebbe sull’intera Cisgiordania occupata le conseguenze del negligente e autolesionista comportamento dei governi israeliani di questi anni: aver lasciato che Hamas governasse indisturbata la Striscia (sia pur sottoposta a un duro assedio economico) mentre nel frattempo si moltiplicavano gli insediamenti illegali israeliani nei territori che si sarebbero dovuti collocare sotto la futura sovranità palestinese (500.000 in West Bank e 250.000 a Gerusalemme est) e si concedeva carta bianca ai coloni per perpetrare continue vessazioni, aggressioni e umiliazioni alla popolazione palestinese (ai quali peraltro Idf e la polizia israeliana avrebbero dovuto garantire protezione in quanto forza occupante).
Saldare il destino della Cisgiordania a Gaza è anche nella strategia di Hamas. Lo ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio il loro leader politico, Ismail Haniyeh pochi giorni orsono, nel videomessaggio rivolto formalmente ai residenti della Striscia in cui intimava: «abbiamo bisogno del sangue delle donne, dei bambini e degli anziani per risvegliare lo spirito rivoluzionario dentro di noi, per spingerci avanti». Noi chi? Evidentemente non i miliziani di Hamas, che il 7 ottobre hanno dimostrato al mondo di quanto odio sono capaci. E neppure i gazawi, che dal giorno successivo sono asfaltati quotidianamente dalle bombe israeliane e che comunque non hanno alternative al fare da scudi umani ai terroristi di Hamas. In realtà il «noi» era riferito ai Palestinesi della Cisgiordania, quelli che si trovano tra il martello dei coloni e delle Idf e l’incudine della periclitante Anp. È a loro che d’altronde si rivolgeva non solo il metatesto del messaggio, ma tutta la strategia politica di Hamas fin dal 7 settembre. I 1.500 morti israeliani dei kibbutz e del rave party, i 240 rapiti e i 10.000 morti palestinesi di Gaza a questo servivano e servono: a dimostrare ai «fiacchi» Palestinesi della Cisgiordania occupata che è il tempo di sollevarsi contro «l’entità sionista», infervorati di nuovo spirito rivoluzionario nutrito dal sangue dei martiri, abbandonando Fatah al suo destino.
Un’occupazione militare di Gaza da parte israeliana e un passaggio dell’amministrazione civile agli uomini di Abu Mazen non farebbe altro che perfezionare il disegno di Hamas: sarebbe quindi una criminale follia politica da parte israeliana e un regalo ad Hamas. Dimostrerebbe che, a oltre un mese dalla terribile e imperdonabile strage del 7 ottobre e dopo inaccettabili lutti e distruzioni nella Striscia, Israele è incapace di uscire dalla strategia imposta da Hamas, non è in grado di assumere effettivamente l’iniziativa strategica.
Al Congresso degli Stati Uniti Anthony Blinken, il segretario di Stato Usa ha parlato nelle scorse settimane della possibilità di un’amministrazione fiduciaria ad interim che si occupasse di gestire la transizione tra l’occupazione israeliana e l’assunzione di una diretta responsabilità da parte dell’Anp. La proposta, che cercherebbe di evitare che la medesima Autorità venisse definitivamente etichettata dai Palestinesi come «collaborazionista», riprende una proposta avanzata nel 2003, durante la seconda intifada, all’allora presidente George W. Bush, attraverso le colonne della rivista Foreign Affairs, da Martin Indyk, l’ex ambasciatore americano in Israele. Affinché ciò sia possibile, però, occorrerebbe il disco verde dell’Onu (tutt’altro che scontato, considerato l’interesse russo a mantenere il Medio Oriente in stato di ebollizione, gli Stati Uniti sotto pressione, e le capitali occidentali distratte, per poter continuare indisturbata la sua guerra di aggressione in Ucraina). Servirebbe comunque un contingente militare cospicuo e robusto, in grado di sorvegliare i confini e mantenere l’ordine pubblico a Gaza: ovvero, se necessario, impedendo che cellule di Hamas riemergano o si riformino. Si tratterebbe di un’impresa al di là della portata di qualunque contingente di Caschi blu.
L’unico caso di un’amministrazione ad interim dell’Onu che ebbe un (limitato) successo, fu quello attuato in Cambogia a inizio anni ’90, per traghettare il Paese fuori della guerra civile tra le forze governative filovietnamite e gli eredi di Khmer rossi, che prevedeva come via d’uscita dall’amministrazione temporanea la rappresentanza paritaria dei due soggetti politici cambogiani e la loro collaborazione al potere. Applicata a Gaza, implicherebbe ipotizzare un governo congiunto tra Hamas e Fatah nella Striscia, instaurato sotto l’egida e grazie alle forze dell’Onu. Se questo non fosse lo sbocco annunciato, le forze dell’Onu diventerebbero il bersaglio di Hamas, della Jihad e di qualunque movimento di resistenza all’occupazione. Chi sarebbe disposto a metterci i suoi soldati? Per comprenderne i rischi, basta ricordare che nei giorni scorsi il ministro degli Affari esteri della repubblica islamica dell’Iran ha già insinuato velenosamente che le truppe italiane del contingente di Unifil schierate al confine israelo-libanese costituirebbero un bersaglio militare legittimo nel caso l’offensiva su Gaza dovesse continuare. Immaginate quale accoglienza potrebbero ricevere delle truppe occidentali – sia pure col casco blu – schierate a Gaza con il compito di impedire azioni ostili verso Israele e il riformarsi delle cellule di Hamas.
La proposta di pace per la gestione della transizione
Non resta che una sola ipotesi: una forza di sicurezza araba, fornita dai paesi firmatari degli accordi di Abramo, integrati dall’Arabia Saudita.
Si tratterebbe di offrire a questi Paesi l’opportunità di diventare protagonisti di una politica di sicurezza di ampio respiro nell’intero Medio Oriente, e in tal modo di far uscire la regione dal lungo cono d’ombra di un processo di decolonizzazione largamente mal riuscito. La proposta dovrebbe essere avanzata degli Stati Uniti, dalla Ue e dai principali Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Spagna) oltre al Regno Unito. E dovrebbe vedere come principale destinatario, e leader della coalizione, Mohamed bin Salman e l’Arabia Saudita. Il principe è sufficientemente ambizioso, intelligente e spregiudicato per capire che cosa verrebbe offerto al suo Paese e alle altre monarchie del Golfo: la possibilità di giocare un ruolo da protagonisti nella politica regionale e mondiale che nessuna «visione 2030», campionato mondiale di calcio, acquisizione di musei od operazione finanziaria potrebbe mai conseguire.
L’esercito saudita, rinforzato dai contingenti degli altri Paesi firmatari degli Accordi di Abramo ed eventualmente, ma non necessariamente, da quelli dei due Paesi che hanno firmato un trattato di pace con Israele (Giordania ed Egitto) è sufficientemente equipaggiato, numeroso ed addestrato per il compito del mantenimento della sicurezza tra Gaza ed Israele e nella Striscia. Il Regno dell’Arabia Saudita è un bastione del conservatorismo sunnita, ostile alla Fratellanza musulmana e ad Hamas, ma di certo non etichettabile come «miscredente» o «crociato». Una simile forza dovrebbe accettare l’esplicito mandato politico di eliminare qualunque fazione armata che si opponesse al ristabilimento della pace nella Striscia, lasciando invece campo libero alla pacifica competizione politica anche per i possibili discendenti di Hamas. Sto ipotizzando qualcosa che cerchi di tenere insieme la Forza di pace araba (in gran parte siriana) che pose fine alla lunga guerra civile libanese verso la fine degli anni ’80 con gli Accordi del Venerdì Santo che chiusero la stagione dei troubles nell’Ulster, concedendo agibilità politica al braccio politico dell’Ira. Si tratta di un’operazione delicata, difficile, articolata ma non impossibile e soprattutto, come cercherò di spiegare, della sola opzione dotata di qualche chance di successo.
Ma perché i paesi del Golfo dovrebbero accettare di correre un simile rischio, di esporsi in un esercizio dall’esito tutt’altro che scontato?
Va subito chiarito che tutta l’operazione comporta rischi e costi alti. I secondi potrebbero essere giustificati esclusivamente dal collegamento a un obiettivo storico, il cui perseguimento potrebbe concorrere in maniera decisiva ad abbassare i medesimi rischi. L’obiettivo è la totale e completa indipendenza e sovranità di Gaza e Cisgiordania, la nascita a 77 anni dalla Risoluzione 181 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1947, dello Stato di Palestina. Solo così le potenze arabe del Golfo potrebbero presentarsi non come forze al servizio dei propri interessi particolari (la creazione di una comune area di prosperità economica con Israele) e collaborazioniste di Israele, ma come le levatrici della tanto agognata indipendenza palestinese: a Gaza e in Cisgiordania. Il loro coinvolgimento dovrebbe essere richiesto simultaneamente all’annuncio solenne da parte del governo israeliano, e garantito internazionalmente, della piena concessione dell’indipendenza alla Palestina entro 12 mesi dalla creazione della Forza di sicurezza araba, accompagnato da un cospicuo impegno finanziario per la ricostruzione della Striscia e da un massiccio piano di investimenti in Cisgiordania gestito da un’autorità ad hoc (costituita dall’Anp e da un board dei Donors internazionali).
Sarebbe il perfezionamento necessario degli Accordi di Abramo, capace di trasformarli in veri accordi di pace regionali, in grado di garantire arabi, israeliani e palestinesi. Costituirebbe anche la più efficace possibilità per rivitalizzare gli Accordi, la cui realizzazione comporta notevoli vantaggi economici per i contraenti. Implementarli resta una grande opportunità economica per tutti i firmatari. Il loro punto debole stava nel prevedere una normalizzazione della presenza di Israele nella regione – e un consolidamento della sua sicurezza – senza prendere minimamente in considerazione la questione palestinese. Attraverso l’assunzione di una diretta e temporanea responsabilità dei Paesi firmatari per la sicurezza e la ricostruzione di Gaza, si eliminerebbe questa fragilità cruciale (la stessa individuata da Hamas e sulla quale Hamas è criminalmente intervenuta) e si collocherebbero gli Accordi all’interno di una più vasta, solida e ambiziosa architettura regionale e multilaterale.
Non sarebbe comunque un’impresa facile e la Forza di sicurezza araba dovrebbe essere sufficientemente robusta e politicamente determinata per poter neutralizzare chiunque si opponga, a cominciare dai vari gruppi sponsorizzati dall’Iran. Ma questa mossa significherebbe uscire dalla logica e dalla strategia finora imposte da Hamas a tutti i giocatori, separare Hamas del popolo palestinese dando ai Palestinesi ciò cui hanno diritto: la sovranità, l’autodeterminazione e l’indipendenza. E non per effetto di una guerra, ma in conseguenza di una pace.
Non va nascosto che l’Iran si metterebbe di traverso con determinazione a una simile sistemazione, cercando di mobilitare tutti i suoi proxy nella regione e magari dando vita a una campagna di attentati anche fuori area. Ma su questo punto occorre essere realisti: Teheran vede gli Accordi di Abramo essenzialmente come un modo attraverso il quale gli Stati Uniti possono riacquisire la leadership in Medio Oriente e si opporrebbe comunque a qualunque piano di stabilizzazione e a qualunque accordo di sicurezza che continuasse a implicare garanzie per la sopravvivenza di Israele e un ruolo maggiore per i sauditi. Tanto vale doversi confrontare con una simile opposizione dotati di uno strumento forte, piuttosto che di un piano debole.
Dobbiamo anche toglierci dalla testa la possibilità di poter contare su qualunque forma di collaborazione o appoggio da parte russa, considerando il vantaggio che Mosca ricava dal perdurare della crisi a Gaza per la conduzione della sua guerra di aggressione in Ucraina. Un discorso diverso potrebbe valere invece per la Cina, che di fronte a un’architettura di sicurezza equilibrata e sufficientemente solida potrebbe convincersi a farne parte. Una collaborazione con l’Occidente e i Paesi arabi moderati in Medio Oriente, inoltre, potrebbe aprire spiragli per la riconsiderazione da parte cinese della sua posizione sulla guerra in Ucraina. Per le democrazie occidentali, infine, la possibilità di essere sponsor e garanti di un assetto di sicurezza mediorientale più giusto e robusto significherebbe implementare una politica di sicurezza più efficace ed aderente ai propri principi eliminando qualunque possibile accusa di applicare un «doppio standard» ogni volta che è coinvolto Israele, potere tornare a concentrarsi sul pericoloso fronte ucraino (dove l’Europa si misura con una minaccia esistenziale), riappacificarsi con segmenti importanti delle proprie opinioni pubbliche, infliggere un colpo a islamofobia e antisemitismo, togliere argomenti alla propaganda delle autocrazie e ritrovare una strada per il fondamentale percorso di riavvicinamento tra le democrazie del «ricco Nord» e le poche del «Sud globale» sul quale si gioca il futuro stesso della democrazia come forma di governo «tipica» della modernità politica.La prospettiva di una Forza di sicurezza araba per Gaza starebbe in piedi solo a fronte di un obiettivo ambizioso come quello della nascita in tempi brevi e certi di uno Stato palestinese.
Affinché la sua nascita sia credibile, occorre un impegno serio da parte di Tel Aviv per il progressivo smantellamento degli insediamenti illegali ebraici in Cisgiordania (e in prospettiva a Gerusalemme est). Questo sarebbe un regalo fatto non ai palestinesi, ma al popolo israeliano e alla vitalità della sua democrazia, già fin troppo avvelenata dall’estremismo dei coloni e dei loro rappresentanti. L’influsso negativo dei coloni sulla vita politica israeliana è fin troppo simile a quello dei Pieds-noirs sulla vita politica francese negli anni Cinquanta. Sappiamo come finì, con il crollo della Quarta repubblica e il salvataggio in extremis della democrazia francese da parte del generale De Gaulle.
È sicuramente il passaggio più critico e si potrebbe discuterne la modularità, ma è necessario per la sopravvivenza della stessa democrazia israeliana. Quasi cinquant’anni di occupazione coloniale dei West Bank hanno ammalorato la qualità della democrazia israeliana e le stanno progressivamente alienando le simpatie soprattutto delle giovani generazioni nelle amiche democrazie occidentali. Israele deve già fare i conti con il «fattore demografico» interno, mi pare che debba cominciare a valutare un altro, e forse ben più grave, fattore demografico: quello appunto di un Occidente che è composto da persone che negli ultimi trent’anni anni hanno assistito prevalentemente all’esercizio arbitrario e sproporzionato della violenza da parte di coloni e militari occupanti nei confronti della popolazione palestinese. Si tratta di considerare in senso più ampio le parole di ammonimento indirizzate dal presidente Biden al premier Netanyahu a «non commettere a Gaza gli stessi errori da noi commessi dopo l’11 settembre in Afghanistan e Iraq». Con la differenza, evidentemente, che mentre gli Stati Uniti, constatato il fallimento di una strategia prevalentemente cinetica, si sono alla fine ritirati dall’Afghanistan e dall’Iraq, Israele non può «ritirarsi dal Medio Oriente».
Ovviamente un impegno di una simile portata non sarebbe credibile se fosse assunto da Bibi Netanyahu, che sembra screditato ormai oltre ogni limite, sia sul piano interno sia sul piano regionale e internazionale. Occorre quindi che qualcun altro ne sia il garante da parte israeliana (forse Ganz, forse altri). Ma anche questo rappresenterebbe un passaggio importante per il recupero della democrazia israeliana.
Quando decenni di politiche orientate al cosiddetto realismo politico (in realtà alla pura logica di potenza e sopraffazione) hanno portato a un risultato disastroso come quello che abbiamo sotto gli occhi, è forse il caso di aprire a politiche che abbiano maggiore respiro e visione. Politiche nelle quali i rischi si assumono e i costi si sopportano per perseguire scopi alti e obiettivi ambiziosi; politiche che consentano di chiudere con il passato e le sue eredità paralizzanti e di aprire a un futuro da costruire, cambiandone il senso e lasciando che questa possibilità influenzi il cambiamento del comportamento degli attori.
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