Ha vinto o ha perso? Questa è la domanda che sorge spontanea il giorno dopo le elezioni di midterm del 2018 – presentate da Donald Trump come un referendum nazionale sulla sua persona – che hanno visto il partito repubblicano mantenere il controllo del Senato e perdere la maggioranza alla Camera a favore dei colleghi democratici.
E non si tratta di una risposta univoca, vista la complessità del sistema istituzionale americano. Si potrebbe azzardare a un pareggio, con vittoria ai punti per il Partito Democratico, che da oggi, per i prossimi due anni, sarà chiamato a fare una dura (ma seria) opposizione al Presidente americano, per scongiurarne la rielezione alla scadenza elettorale del 2020.
L’autoproclamata vittoria
Secondo Donald Trump, l’esito delle midterm rappresenta una vittoria per il suo partito, risultato di un ‘effetto magico’ dello stesso presidente sull’elettorato americano. A giustificazione della sua soddisfazione, il fatto che i repubblicani abbiano mantenuto il controllo del Senato, rafforzando la loro presenza nella Camera alta del Congresso.
Trainati da un’affluenza record, hanno infatti blindato la maggioranza, passando da 51 seggi agli attuali 54-55 confermandosi in un stato chiave quale la Florida, dove Scott ha vinto, seppur al fotofinish, contro Nelson. I candidati senatori democratici hanno invece deluso le aspettative, strappando agli avversari il solo Nevada, non riuscendo a sfondare in Tennessee, ma soprattutto perdendo in Indiana, Missouri, Montana e North Dakota.
Va tuttavia sottolineato che la crescita dei repubblicani al Senato è anche il risultato di una competizione che si giocava con il vento in poppa del Great Old Party (GOP). Dei 33 seggi in competizione in queste midterm, infatti, 23 erano in mano al Partito Democratico (chiamato all’arduo compito di difenderli tutti), tre dei quali tradizionali roccaforti degli avversari – Montana, North Dakota e Missouri – che in questa tornata elettorale se li sono ripresi.
Colpo di reni democratico
In questo contesto, il ritorno della Camera dei Rappresentanti sotto la guida democratica – risultato largamente preventivato alla vigilia – lascia un sapore agrodolce all’establishment del partito. Se è vero che l’esito delle votazioni per la Camera bassa confermano una disaffezione popolare nei confronti della figura del presidente, è altrettanto vero che le proporzioni del recupero dei democratici sono state sostanzialmente limitate, o quantomeno al di sotto delle speranze. L’America, per farla breve, non ha voltato le spalle in modo netto a Donald Trump, anche se sicuramente ha sancito un chiaro arretramento dell’inquilino della Casa Bianca nelle preferenze popolari.
I democratici hanno ottenuto un significativo + 9% rispetto alle precedenti elezioni e raccolto un bottino di 222 seggi alla Camera, ben oltre la soglia di maggioranza fissata a 218 seggi. Anche i risultati dei governatori dimostrano una buona performance del partito, che è riuscito a scalzare i rivali repubblicani in carica in Wisconsin, Illinois, Kansas, Maine, Michigan e New Mexico.
Tuttavia, considerato l’approccio altamente divisivo di Trump nei primi due anni del suo mandato, ci si poteva aspettare (o sperare, per molti osservatori) che l’ondata blu avesse una consistenza diversa sia in termini puramente numerici sia dal punto di vista della narrativa politica, elemento che ancora oggi sembra mancare alla compagine dei “blu”. Il Tycoon, invece, nonostante le sue infinite contraddizioni e i modi decisamente non convenzionali, ha dato dimostrazione di saper tenere botta e limitare i danni del colpo di reni democratico.
I dossier chiave
Per Trump inizia ora una nuova fase, durante la quale, oltre agli attacchi provenienti dall’interno al suo partito, dovrà affrontare anche un ramo del Congresso ostile e in grado di limitarne la veemenza, se non verbale, quantomeno politica.
Al netto del possibile ricorso all’impeachment, è su una serie di dossier chiave per la politica e l’economia americana – piano infrastrutturale, futuro del NAFTA, Obamacare – che il presidente in carica potrebbe essere ingabbiato dall’opposizione democratica. La quale, dovrà scegliere con grande attenzione come utilizzare i poteri che gli elettori americani gli hanno attribuito, e su quali temi condurre le proprie battaglie al Congresso. La tentazione di metterla sullo scontro personale, contro un “lottatore” politico di prima fascia come Trump, potrebbe rivelarsi controproducente. Sarà invece opportuno lavorare su temi sostanziali, evitando polarizzazioni estreme, di cui Trump potrebbe esserne il primo a trarne beneficio.
Sul piano internazionale, questo potrebbe significare – in generale – maggiore cautela e moderazione nell’azione dell’Amministrazione. Nel quadrante mediorientale, e soprattutto in Iran, ciò potrebbe limitare le iniziative eclatanti da parte di Trump, nonostante appaia molto improbabile che il presidente possa fare inversione su alcuni dossier chiave, primo fra tutti il nucleare iraniano. Al contempo, le pressioni interne da parte dei democratici (che potrebbero lanciare iniziative istituzionali per provare la sua collusione con Mosca) potrebbero portare l’inquilino della Casa Bianca ad adottare un approccio più duro nei confronti della Russia, con implicazioni sugli equilibri di sicurezza in Europa. Europa che, grazie al riequilibrio delle forze politiche all’interno del Congresso, potrebbe sperare di aprire un canale di dialogo più con Washington in materia di impegni NATO e di relazioni commerciali, quest’ultimo tema sul quale l’attenzione dei dem sarà probabilmente concentrata in ottica anti-cinese.
Il tutto, ovviamente, a livello teorico. Perché il presidente americano – e lo ha dimostrato fino all’ultimo anche in questa campagna elettorale – non sa resistere ai colpi di scena.
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